giovedì 29 dicembre 2011

TERRITORI E RAZZIE. L'ANNO DELL'ACCAPARRAMENTO DELLE TERRE. Articolo di Edoardo Vigna, IL CORRIERE DELLA SERA, 29 dicembre 2011

La «razzia delle terre» praticata dalle multinazionali occidentali ma anche da Brasile, India, Cina, Russia



In Tanzania, la gente dei villaggi, per affittare un acro di terra, paga tra 250mila e due milioni e mezzo di scellini locali annui (125-1.250 euro): gli investitori stranieri (secondo il giornale economico Business Times) per produrre biocarburanti starebbero intanto facendo incetta delle stesse terre al prezzo ridicolo di 700 scellini ad acro (0,35 euro). L’Etiopia, Paese cronicamente nel morso della carestia, in cui 13 milioni di persone dipendono dagli aiuti internazionali, negli ultimi anni è stata presa d’assalto da società agro-alimentari o produttrici di biocarburante indiane, saudite, cinesi. Secondo l’americano Oakland Institute e l’organizzazione dei contadini del Mali, dalla fine del 2010 ben 544mila ettari di terra del Paese africano – che darebbero lavoro a più di mezzo milione di agricoltori - sono stati o sono in via di «razzia» da parte di governi stranieri o multinazionali. Storie che ritornano anche in Indonesia, Malaysia, Filippine, Bolivia: anche se è soprattutto in Africa che non valgono mai le leggi di mercato. Solo quella del più forte.
LAND GRAB - Si chiama «Land Grab», traducibile in «rapina (grab) della terra (land)”, non è ancora la parola dell’anno come «spread» ma ne sentiremo parlare sempre di più. Da una parte i governi di nazioni più ricche, che cercano terre per produrre cibo da riportare in patria per garantire sicurezza alimentare ai propri cittadini, o multinazionali a caccia di appezzamenti per produrre a costo più basso. Dall’altra i contadini e le terre in cui vivono da secoli, che garantiscono loro (quando pure lo fanno) la sopravvivenza, e quei diritti fondamentali al cibo, alla vita, spesso non scritti ma non meno autentici. E ormai sistematicamente violati. Un fenomeno in crescita esponenziale. In 10 anni, (secondol’International Land Coalition) 203 milioni di ettari sono stati acquistati (ceduti) o affittati a 40/50 e fino a 99 anni (o sono in via di): una superficie pari a 7 volte quella dell’Italia, oltre 20 volte quella delle nostre terre coltivabili, più o meno le dimensioni dell’Europa nord-occidentale.
OBIETTIVO: AFRICA - Primo obiettivo delle negoziazioni: l’Africa, appunto, che rappresenta con 134,5 milioni di ettari quasi il 70% delle trattative (anche quelle in corso), poi l’Asia con poco più del 20% (43,5 milioni) e l’America Latina (18,3). Una piccola quota, 4,7 milioni di ettari, riguarda peraltro anche la campagna europea (soprattutto Romania, Bulgaria e Ungheria). Più in particolare, le ricerche dell’ong Oxfamindicano – nel mirino del land grabbing – soprattutto Paesi come Ghana, Mozambico, Senegal, Liberia, il nuovissimo Sud Sudan e, appunto, Etiopia e Tanzania. Il Mali e (ancora) la Tanzania vengono considerate sotto «opa ostile» anche dall’americano Oakland Institute, autore di uno dei dossier più recenti e completi. «In Mali, però, si tratta soprattutto di investimenti della vecchia "dirigenza” libica, che ora sono stati congelati dalla nuova, in questa fase meno disposta a investire all'estero», spiega Stefano Liberti, che ha appena pubblicato il libro Land Grabbing, come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (edito da Minimum Fax, di prossima pubblicazione anche in Francia, Germania, America).
NUOVO COLONIALISMO? - A rastrellare terre sono soprattutto governi e società di Paesi come la Cina, l’India, la Corea del Sud, l’Arabia Saudita, il Qatar. Ma, oltre alle multinazionali occidentali, ci sono anche alcuni Paesi emergenti come Brasile e Russia. L’obiettivo principale, per gli Stati, sarebbe quello del perseguimento della sicurezza alimentare per la propria popolazione, in un momento di incertezza e crisi come l’attuale. In realtà, secondo le indagini più ampie e accreditate (Ilc in testa), il 37% delle negoziazioni avrebbero come finalità la produzione di bio-carburanti, seguiti (11,3%) da produzione agricola e (8,2%) produzione di legno ed estrazione minerarie. I governi e le società «acquirenti», naturalmente, contestano le contestazioni. Come la Cina, che nega ogni rapacità nelle sue operazioni; o come l’India, le cui compagnie che hanno comprato terre in Etiopia sostengono di aver al contrario investito in un’agricoltura arretrata, portando lì tecniche e macchine moderne. E a difendersi con questi stessi argomenti sono pure i governi locali «compiacenti», che aprono le porte alla cessione di quote territoriali del proprio Paese con la ragione dell’ammodernamento dell’economia locale attraverso gli investimenti stranieri.
INDIGNADOS DELLA TERRA - Peccato che a farne le spese siano sempre i contadini, espropriati con estrema facilità delle terre ancestrali di cui non detengono formali diritti di proprietà. E spesso privati del lavoro e anche del semplice diritto al cibo e alla sopravvivenza. I più recenti investimenti (di un fondo americano dell’Iowa) in Tanzania riguarderebbero 325.000 ettari di terra, che danno ad oggi lavoro a 162mila persone. E che in un futuro prossimo sembrano destinati al lavoro subordinato e sottopagato, quando non alla migrazione verso le città in cerca di lavoro. Senza contare gli sconvolgimenti della natura: produzione di bio-diesel a parte, l’Oakland Institute racconta il caso esemplare di una società che produce legname della Norvegia che sta progettando di piantare, al posto di 7.000 ettari di foresta in Tanzania, la monocultura del pino e dell’eucalipto per ottenere crediti di anidride carbonica da rivendere al governo norvegese. Soluzioni per il «land grab»? Poche, e al momento poco percorse. I contadini hanno cominciato a organizzarsi, ma gli «indignados della terra» riescono a far sentire la propria voce assai meno dei «cugini di città». Le organizzazioni internazionali cominciano a dibattere dei rischi e dei risvolti di questa forma di neocolonialismo. «L'Argentina ha approvato pochi giorni fa una legge per limitare l'acquisizione delle terre da parte degli stranieri. Il Brasile ha fatto qualcosa di simile», spiega ancora Liberti. C’è poi chi comincia a pensare di utilizzare lo strumento del diritto internazionale del «diritto al cibo». «Chi insiste su codici di condotta per gli Stati dovrebbe tener presente che avrebbero funzione solo di dissuasione», spiega Marcella Distefano, docente di diritto internazionale a Messina. «La strada giusta invece è quella delle norme consuetudinarie, vincolanti. Come la tutela dei diritti fondamentali», riconosciuti anche dai patti dell'Onu del '66. «In sostanza, poi, per gli Stati Africani la strada sarebbe quella di adottare contratti che prevedano l'obbligo di una ricaduta positiva sulle popolazioni locali»: strade, pozzi, acquedotti, scuole, un po' come i nostri oneri di urbanizzazione. E’ probabilmente la strada maestra. Quanto tempo ci vorrà per percorrerla, però, è un bel dibattito: mentre le terre dei poveri vengono «espugnate».
Edoado Vigna

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