giovedì 22 settembre 2011

Antropologia dello spazio. Franco La Cecla, Spazio e mente locale, 1987

Spazio arrangiato e spazio prescrittivo

   L’antropologo Franco La Cecla (cfr. Spazio e mente locale, in AA.VV. Pensare altrimenti. Esperienza del mondo e antropologia della conoscenza, Laterza, 1987) distingue fra un tipo di spazio chiamato ‘arrangiato’ ed un tipo di spazio chiamato ‘prescrittivo’.


   Il primo tipo di spazio è esemplificato da tutti i tipi di insediamento provvisorio che possiamo vedere in giro per il mondo occidentale: favelas, bidonvilles, baraccopoli. In questi spazi abitativi sono le persone che ci abitano a manipolare ed organizzare questi spazi. Lo spazio, in questo caso, sembra essere ancora sotto il controllo diretto degli abitanti.

   Nel secondo caso si passa, invece, ad una “idea più astratta e generale di spazio, più impersonale e statica”; qui abbiamo a che fare con una manipolazione ed organizzazione dello spazio che non è più la diretta conseguenza delle decisioni di chi vi abita, ma il risultato di processi di specializzazione, regolarizzazione ed igienizzazione sia del tessuto urbano che dei comportamenti urbani. E’ lo spazio della città “concepita come rete di istituzioni, ospedali, carceri, case di lavoro, scuole e griglie di strade e viali per la circolazione del traffico e del controllo in veste di polizia urbana e di sorveglianza burocratica. In questo tessuto anche l’abitare viene trasformato in un domicilio regolarizzato e disciplinato, un’altra istituzione insomma: la residenza” (56).



L’intervento prescrittivo sullo spazio e la modificazione degli spazi indigeni

   Secondo La Cecla in occidente si comincia ad intervenire sugli spazi da abitare verso la fine del Settecento. In particolare ciò avverrà in Francia ed Inghilterra e sarà Londra, la prima grande città a sperimentare importanti lavori di rinnovo urbano; chi farà le spese di questi interventi saranno le ‘plebi urbane’, le classi più laboriose e pericolose. Allo stesso modo, questi interventi caratterizzeranno le colonie inglesi e francesi: “Militari missionari e governatori cominciano a far piazza pulita dello spazio indigeno. Non diversamente da come, nei nascenti USA, gli stati confederati tratteranno gli indiani delle pianure, negando loro la capanna circolare e chiudendo le tribù in riserve e dormitori quadrati, così i colonizzatori applicheranno dappertutto un criterio combinato di piazza pulita e di trasferimenti forzati. Nell’Algeria francese gli stessi poteri militari si incaricheranno di disciplinare gli spazi e tutto verrà riorganizzato all’insegna dell’uniformità e dell’allineamento”(59) (cfr. Bourdieu-Sayad, Lo sradicamento, Parigi, 1977).



Gli effetti dei cambiamenti spaziali sulla mentalità indigena.

   La Cecla riporta numerosi esempi di cambiamenti della struttura abitativa e delle conseguenze sulla mentalità e percezione indigena: un primo esempio lo ricava da un testo di Claude Levi-Strauss (Tristi tropici)

1.       in Amazzonia “i missionari salesiani della regione del rio delle Grazie si rendono subito conto che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo consiste nel fare loro abbandonare il villaggio per un altro dove le case sono disposte in file parallele (…) la distribuzione circolare delle capanne intorno alla casa degli uomini era di estrema importanza per quel che riguarda la vita sociale e le pratiche di culto. I Bororo restano disorientati, non si raccapezzano più con i punti cardinali, si sentono privati di un ‘piano’ che sostiene il loro sapere e perdono rapidamente la memoria delle reciproche relazioni e delle tradizioni come se il loro sistema sociale e religioso fosse troppo complicato per rinunciare ad uno schema reso evidente dal piano del villaggio e di cui i propri gesti quotidiani rinfrescavano continuamente i contorni. Levi-Strauss chiarisce che non si tratta del villaggio in quanto entità fisica, ma della struttura spaziale condivisa che il villaggio riproduce”; (60).

2.       un secondo esempio lo troviamo in Marocco dove sono stati costruiti dei condomini alla periferia di Casablanca per ospitare famiglie trasferite qui dalle bidonville: “Un’assistente sociale marocchina dice che le famiglie, qui, si sentono ‘confuse’ perché private della ‘zriba’, di uno spazio semiprivato che, nella tradizione islamica locale, fa da filtro fra esterno ed interno. Costrette ad incontrarsi sul pianerottolo delle scale, hanno ben poche possibilità di appartarsi anche nello spazio domestico: la cucina è la prima stanza che si incontra e che si apre sul ballatoio, aprendo la porta;  non essendovi un filtro intermedio, avvenendo tutti i passaggi in facciata, le donne godono qui di una minore libertà rispetto alla bidonville e la loro reclusione qui è maggiore”  (cfr. Petonnet, Spazio, distanza e dimensioni in una società musulmana, L’Homme, 2, 1984).

3.       il terzo esempio proviene dall’Italia; si tratta dei sassi di Matera, un caso di insediamento rupestre interno ad “una tradizione rupestre che sapeva fare molto bene i conti con il clima, l’esposizione, l’organizzazione delle acque potabili e di scarico, una sapiente gerarchia di spazi pubblici e di vicinato” (60). Qui l’intervento di evacuazione fu portato avanti da una commissione di sociologi e studiosi americani ed italiani che denunciarono “un pericoloso caso di affollamento e di promiscuità, una vergogna nazionale da cancellare”


La trasformazione dello spazio indigeno e il dispositivo della normalizzazione


   Gli interventi occidentali sugli spazi arrangiati sono il segno di una mentalità che si riferisce a delle “pratiche, tecnologie sociali e prescrizioni su come vivere che, attraverso giudizi, costruzioni, eliminazioni e censure dell’esistente tendono a creare un habitus, un orizzonte normativo nuovo che si sostituisce agli altri” (58). Il riferimento è al concetto di ‘dispositivo’ introdotto da Michel Foucault nel 1969 (Nascita della clinica) e ripreso da sociologi come Pierre Bourdieu e G. Teyssot anni dopo.


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