lunedì 26 settembre 2011

SAGGI. Architettura e potere. Marco Belpoliti, Recensione a Sudjic D., Architettura e potere (2011)


Si fronteggiano a breve distanza, meno di un chilometro in linea d'aria. Il primo ha la forma di due grandi parentesi contrapposte nella parte convessa, una più alta e una più bassa; il secondo è invece una sorta di nastro di vetro che si srotola partendo da una cuspide posta più in alto. Si tratta delle nuove torri milanesi.

 

In quella edificata su progetto

di Henry Cobb ha sede la

Regione Lombardia, nell'altra,

opera di Cesar Pelli, si trasferirà

tra poco Unicredit, la

più grande banca italiana. Come

ha notato Silvia Micheli in

un testo dell'atlante di architettura

contemporanea

MMX





Architettura Zona Critica


(a cura



di M. Biraghi, G. Lo Rocco,


S. Micheli, Zandonai, pp. 297, €


26), le nuove architetture evidenziano


i due poteri della capitale


morale: il gruppo dirigente


della politica contrapposto


all'anima finanziaria e


commerciale della città.


Ha dunque ragione Deyan


Sudjic, critico dell’

Observer e



direttore del Design Museum


di Londra, quando scrive all'inizio


del suo volume

Architettura





e potere


che l'architettura ha



che fare col potere dato che


questo impegna grandi risorse


nei piani edilizi, perché costruire


è l'attività precipua dei potenti.


L'attenzione verso l'architettura


è cresciuta notevolmente


nell'opinione pubblica


segno di un interesse che fa dei


progettisti i leader culturali


del XXI secolo. Sudjic ricostruisce


nel suo libro - opera ben


scritta, agile, ricca d'informazioni,


sino al limite del gossip -


le vicende degli architetti del


XXsecolo, da Speer a Piacentini,


da Miralles a Meier; s'inoltra


nelle vicende del costruire


decretato dai regimi totalitari,


ma anche e soprattutto delle


democrazie occidentali.


Se, come dimostra il progettista


di Hitler, Albert Speer,


ma anche Boris Iofan, il costruttore


di Stalin, un architetto


può materializzare l'aspetto


esteriore del fascismo, dello


stalinismo o del saddismo, prima


ancora che i regimi esistano


concretamente, ovvero trasformare


una minacciosa possibilità


in una terribile realtà, è


però anche vero che coloro che


svolgono questo mestiere hanno


inevitabilmente a che fare


col potere, con coloro che possiedono


i mezzi e le ricchezze necessarie


per edificare i loro sogni


di mattoni e cemento. Sudjic


mostra la doppia faccia dell'architettura


scrivendo una dichiarazione


d'amore per l'arte di costruire,


e insieme compiendo


una spietata analisi dei legami


tra questa e i potenti del mondo.


Quando Speer si lamentava con


Hitler per le difficoltà che gli


frapponeva il ministro delle finanze


nazista nella progettazione


della Berlino del Terzo Reich,


il Führer replicava che questi


non si rendeva conto di quale


fonte di entrate avrebbero costituito


per lo Stato nei seguenti


cinquant'anni quegli edifici, alla


pari dei castelli di Ludovico di


Baviera, considerato pazzo, e invece


visitati da migliaia di persone.


Hitler, commenta Sudjic, «rivendicava


per sé l'invenzione


dell'effetto Bilbao».


Ci sono nel libro capitoli straordinari


come quello dedicato alle


biblioteche erette dagli ex presidenti


americani, da Regan a


Bush, da Carter a Clinton; e poi


ancora il ritratto al vetriolo di


Jacques Attali che trasforma un


edificio qualsiasi in una banca


europea spendendo milioni per


ottenere il risultato di colpire


clienti e visitatori. Ci sono descrizioni


di opere di Renzo Piano come


di Norman Foster, ma senza


dubbio il caso più eclatante è


quello di Rem Koolhaas con le


pagine dedicate alle nuove architetture


dei cinesi, i futuri padroni


del mondo. L'architetto olandese,


grande esperto del caos, si


è giocato tutto lavorando per i


suoi committenti governativi


nella costruzione della China Television.


L'autore mette a confronto


Koolhaas con Zhang


Kaiji, il progettista del Museo


della Rivoluzione, finito a riflettere


durante la Rivoluzione culturale,


per dieci lunghi anni, sul


suo lavoro di architetto mentre


spazzava pavimenti.


L'architettura, conclude, serve


a definire un regime, ma non


sono quasi mai gli architetti a


formularne il significato. La necessità


di costruire nasce da un


bisogno primario: realizzare un


rifugio nel senso fisico del termine;


tuttavia con lo sviluppo delle


civiltà umane essa è diventata il


tentativo di affermare una visione


del mondo, sia quando si tratta


di una singola casa sia di palazzi


o grattacieli. Fra un sindaco


che invita un architetto a progettare


un edificio, o un nuovo


complesso abitativo, esiste un


rapporto differente tra quello


che s'instaura tra lo stesso architetto


e gli inquilini che vi dovranno


abitare. Difficile trovare un


dittatore, da Mussolini a Kim Il


Sung, che una volta raggiunto il


potere non si sia impegnato in


una serie di costruzioni. E la cosa


riguarda anche i grandi capitalisti


americani, come mostra


la storia di Nelson Rockfeller.


Nel caso dei grandi architetti


del XX secolo come Le Corbusier


e Mies van de Rohe, e le Archistar


attuali (Frank Gehry,


Rem Koolhaas, Renzo Piano),


non si tratta di liberi creatori: il


loro lavoro dipende sempre dal


grado di coinvolgimento nel contesto


politico. L'architettura in


definitiva ha sempre a che fare


con le medesime cose: potere,


gloria, spettacolo, memoria,


identità. E mentre gli architetti


pensano di usare i potenti e i ricchi


per restare nella storia come


immortali, la loro attività, alla fine,


viene definita non dal loro linguaggio


architettonico, bensì


dal desiderio dei ricchi e dei potenti


di dare una forma almondo

usando la loro arte.

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