venerdì 23 settembre 2011

Territorio ed economia. Massimo Alberizzi, Contadini cacciati dalle terre in Uganda, 2011

Il reportage

Cacciati dalle terre in Uganda
Il dramma di 20 mila contadini

'Nessun compenso, solo minacce. Ora siamo poverissimi'




KICUCULA (Uganda) - Dall'alto della collina Paulo Ntesemana guarda con le lacrime agli occhi quella che fino a pochi mesi fa era la sua terra. Fa un ampio gesto con il braccio: «Ecco, tutto questo era mio. Coltivavo caffè e patate, avevo mucche, capre e pecore. Guadagnavo bene e ogni anno con un milione di scellini (262 euro, ndr) potevo permettermi di mandare i miei tre figli a scuola. Volevo che diventassero dottori. Invece, un anno fa mi hanno confiscato tutto, bruciato la casa e picchiato brutalmente. Ho abbandonato la terra e sono andato a vivere da mio fratello. Ospite, senza più un lavoro. E i miei figli non vanno più a scuola».
L'acquisto dei terreni agricoli da parte di grandi compagnie occidentali non è una pratica in uso solo in Uganda. Come spiegano diverse indagini dell'Onu e di alcune organizzazioni non governative, si è diffusa in tutta l'Africa e non solo. La riforestazione e l'uso intensivo di campagne sottoutilizzate, perché destinate finora a un'agricoltura di sostentamento, potrebbero giovare sia alle economie povere sia all'ambiente. Ma invece non è così, perché i contadini che da anni abitavano quelle terre sono stati allontanati senza alcuna ricompensa. Dal 2001, nei Paesi in via di sviluppo, 227 milioni di ettari, una superficie grande quanto l'Europa occidentale, è stata data in concessione a società straniere: cinesi e indiane soprattutto, ma anche coreane o europee.
In particolare in Uganda ad accaparrarsi i terreni è stata la britannica New Forests Company (Nfc), il cui presidente, Julian Ozanne, è stato corrispondente del Financial Times da Nairobi: uno dei più competenti giornalisti al tempo della guerra dell'Onu in Somalia all'inizio degli anni '90. Julian scriveva di business, ora il business lo fa. In Uganda, Tanzania e Mozambico, la Nfc gestisce 90 mila ettari: le coltivazioni originali - banani, manghi, avocado, fagioli, cereali e altro - sono state distrutte e la terra è stata riconvertita a pini ed eucalipti. «Le nuove piantagioni - sottolinea Matt Grainger dell'Ong Oxfam International - hanno portato lavoro e gli alberi contribuiranno ad evitare che la produzione di legname avvenga sfruttando le foreste naturali. Inoltre si potranno vantare i carbon credit, previsti dal trattato di Kyoto». «Non solo - aggiunge Matt -. La Nfc in Uganda ha aperto scuole, piccoli ambulatori, programmi economici con le comunità locali. Ha scavato pozzi e costruito latrine. Il contratto non prevede una vera vendita, ma un permesso di utilizzo che, per evitare un effetto devastante sull'economia locale, vieta comunque di coltivare piante destinate al cibo, allevare animali e costruire case. Il progetto è buono».
Allora cos'è che non quadra? Al di là dei problemi che possono sorgere nei mercati interni, in Africa la gestione della terra è legata a sistemi di proprietà e di utilizzo consuetudinari con altrettanti diritti che in Europa si chiamerebbero «acquisiti» e in Africa «tradizionali». Un sistema che coinvolge l'organizzazione sociale. La proprietà fondiaria è un punto assai sensibile che coinvolge emotività ancestrali. Oggi nel continente solo una piccola parte della terra è oggetto di un titolo di proprietà individuale.
In Uganda le piantagioni affidate alla Nfc sono tre, nei distretti di Mubende, Kiboga e Bugiri, per un totale di 20 mila ettari, nei quali sono già stati piantati 12 milioni di pini ed eucalipti. I terreni appartengono allo Stato, che li aveva dati in uso ai veterani di guerra per aver combattuto a fianco delle truppe britanniche in Egitto e in Birmania. In Kiboga alcuni contadini le coltivavano da oltre 40 anni e le avevano passate a figli e nipoti. Alcune erano passate di mano con regolari contratti di vendita. «Possedevo tre ettari di terra. Mi avevano assicurato che mi avrebbero ricompensato. Invece è arrivato un gruppo di militari, guidato a distanza da tre muzungo , tre bianchi - racconta Besigye Chance -. Mi hanno intimato di sloggiare. Esitavo e mi hanno picchiato e minacciato di violentare mia moglie. Mentre scappavamo abbiamo visto che distruggevano la mia casa e bruciavano il bananeto». Ci sono tante testimonianze simili nei villaggi ai margini delle piantagioni della Nfc. Oxfam stima che le persone cacciate siano oltre 20 mila. «Ci chiamano abusivi - racconta Bumusiba Ridia, 11 figli, il marito in ospedale, mostrando i documenti di proprietà di un terreno confiscato - ma sono loro che hanno agito illegalmente per portar via le nostre proprietà. Eravamo ricchi, ora siamo poverissimi».
Questa situazione ci riporta alla storia del continente quando, fino al secolo scorso, le potenze coloniali e i coloni stranieri si impadronivano arbitrariamente di terreni agricoli africani, cacciando le popolazioni che vi abitavano. «Il progetto - ripete Matt Grainger - è buono, ma perché sbatter fuori la gente così? I contadini sono disposti a spostarsi se potessero ricevere nuove terre o i soldi per comprarle. Così non si fanno gli interessi delle popolazioni ma si impoveriscono interi villaggi. Gli effetti potrebbero essere catastrofici».
Massimo A. Alberizzi
Corriere della sera, 22 settembre 2011

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