L’Emilia-Romagna è nuovamente in allerta meteo arancione, a causa di neve e soprattutto pioggia. Nell’ultimo anno la regione è stata colpita da tre eventi alluvionali diversi che hanno messo in grave difficoltà la popolazione della regione. Tuttavia, non solo l’Emilia-Romagna è stata interessata da forti piogge e nubifragi che hanno causato piene, allagamenti e numerosi disagi. Anche in Toscana, per esempio, negli scorsi mesi sono allagati dei fiumi nella zona del pisano e del livornese. O ancora a Milano, spesso quando si registrano violente precipitazioni, si verificano degli allagamenti delle strade cittadine.

Nel capoluogo milanese è stata costruita, tra i vari interventi, una vasca di laminazione per contenere le piene del Seveso e in Emilia-Romagna sono stati fatti degli interventi straordinari post-alluvione e c’è pronto un piano più strutturale per contrastare questo tipo di eventi. C’è un problema che non sembra essere stato ancora affrontato con decisione: il consumo di suolo.

Un fenomeno che ogni anno continua a crescere, nonostante abbia effetti negativi sull’ambiente e sia indicato tra gli ambiti di azione dell’Agenda 2030 dell’Onu e del Piano per la transizione ecologica dell’Italia. L’obiettivo delle Nazioni unite e dell’Italia sarebbe arrivare a un azzeramento del consumo di suolo entro appunto il 2030.

Cosa si intende per consumo di suolo

L’Ispra – Istituto superiore per la ricerca ambientale – spiega che il consumo di suolo è una «variazione da una copertura non artificiale (suolo non consumato) a una copertura artificiale del suolo (suolo consumato), con la distinzione fra consumo di suolo permanente (dovuto a una copertura artificiale permanente) e consumo di suolo reversibile (dovuto a una copertura artificiale reversibile)».

Si può poi introdurre un’ulteriore distinzione che è rappresentata dal consumo di suolo netto, ovvero il consumo di suolo “al netto” degli interventi di «recupero, demolizione, deimpermeabilizzazione, rinaturalizzazione o altre azioni in grado di riportare il suolo consumato in un suolo in grado di assicurare i servizi ecosistemici forniti da suoli naturali».

Questo consumo è un problema per diversi motivi. Prima di tutto perché il suolo, ovvero lo strato superficiale del terreno, è una risorsa non rinnovabile. Esso fornisce cibo, biomassa, materie prime, è un luogo in cui si crea biodiversità e impiega centinaia di anni a formarsi. Negli ambienti temperati, per esempio, un solo centimetro di suolo si forma in 200-400 anni.

Ciò significa che l’artificializzazione di terreni distrugge questa risorsa e la sua biodiversità. E anche interventi di rigenerazione necessiteranno di secoli per riportare la situazione indietro. Inoltre, l’aumento di aree cementificate toglie spazio al verde e alle piante che possono, per esempio, mitigare l’inquinamento dell’aria. Oltre a creare le cosiddette isole di calore, aree in cui c’è un maggiore assorbimento delle radiazioni solari e crea delle zone urbane in cui la temperatura è sensibilmente più alta, rispetto invece a punti ombreggiati o con della vegetazione che rimangono più freschi.

Il rapporto Ispra 2024

Ogni anno, l’Ispra monitora l’aumento di questo fenomeno e redige un rapporto per rendere pubblici i risultati dell’osservazione. Secondo il report del 2024, lo scorso anno sono stati consumati 64 km2 al netto delle superfici naturali recuperate, con un aumento dal 7,14 al 7,16 per cento della quota totale di suolo nazionale artificiale. E il trend è in ascesa da anni.


«Tra l'altro il recente Regolamento europeo sul ripristino della natura, che è entrato in vigore ad agosto di quest'anno – racconta Michele Munafò, curatore del rapporto Ispra –, ci chiede non soltanto di evitare nuove artificializzazioni, in particolare nelle aree urbane, ma ci chiede di ripristinare gli ecosistemi degradati e, ad esempio nelle aree urbane, non ridurre le aree aperte, non ridurre le aree vegetate con alberi tra il 2024 è il 2030 e dal 2031 in avanti di aumentare progressivamente, quindi fondamentalmente di iniziare un'opera di rinaturalizzazione, di ripristino, di depavimentazione e deimpermeabilizzazione del suolo che dovrebbe essere un po' la chiave».

I numeri che stiamo vedendo negli ultimi anni ci dicono però che siamo molto lontani dagli obiettivi, molto ambiziosi, «probabilmente al di là dall’essere raggiunti», dice ancora Munafò.

Il consumo nelle zone a rischio idrogeologico

Una tendenza preoccupante è inoltre quella del consumo di suolo in aree ad alto rischio idrogeologico, ovvero aree soggette più facilmente al rischio di frane o alluvioni a causa di vari fattori, tra cui la densità abitativa, di infrastrutture artificiali e di terreno impermeabilizzato. «Il suolo naturale – spiega Michele Munafò – si comporta come se fosse una spugna. Trattiene l'acqua e la fa filtrare. Un suolo invece impermeabilizzato non ha la stessa funzione, anzi l'acqua scorre in superficie con quantità, portate e velocità molto più elevate e quindi di fatto aggrava la pericolosità idraulica del territorio e quindi la probabilità che si possono manifestare fenomeni di dissesto».

A fronte di ciò, in queste aree il consumo di suolo continua a crescere. Si legge infatti nel rapporto che «nelle aree a pericolosità idraulica media ricade il 13,1 per cento del suolo consumato totale, con un incremento, nell’ultimo anno, di 1.107 ettari, dei quali quasi due terzi tra Emilia-Romagna (577 ettari) e Toscana (148 ettari)». Così, anche nelle zone a pericolosità da frana si registra l’11 per cento del suolo italiano artificializzato. In Lombardia il suolo artificiale in aree franose è il 15,53 per cento e in Piemonte il 15,43 per cento.

Più suolo artificiale nonostante il calo demografico

Tutto questo avviene mentre, al contrario, la popolazione italiana è in continuo calo. Da questo si intuisce, quindi, che anche il consumo di suolo in rapporto al numero di abitanti (consumo di suolo pro-capite) sta crescendo. Ancora nel rapporto si può infatti leggere che «il suolo consumato pro-capite aumenta ancora dal 2022 al 2023 di 1,3 m2/ab», con una di superficie artificiale di 366,7 m2 per ogni abitante.

Questo si spiega in vari modi, anche se può far riflettere il fatto che il nostro stile di vita ci porti come società a utilizzare aree ancora naturali, seppur in numero sempre minore. Tornando però alle cause, l’uso residenziale è minoritario. Rappresenta infatti soltanto il 16 per cento del nuovo suolo consumato, che invece è influenzato soprattutto da attività produttive, commerciali e dalla logistica che influisce su 500 nuovi ettari di suolo artificiale. Oppure abbiamo, in particolare nelle aree urbane, grandi spazi coperti da pavimentazione, come piazzali e parcheggi.

Spesso, inoltre, le aree urbane presentano «infrastrutture che necessitano di manutenzione o che sono magari stato di degrado», racconta Munafò. Dovrebbe quindi essere una priorità, per non consumare nuovo suolo, intervenire sull'esistente, «però chiaramente comporta delle difficoltà operative, economiche. È più semplice costruire su un terreno agricolo, piuttosto che intervenire sull'esistente».

Questo ci porta quindi all’elefante nella stanza, la mancanza di una normativa nazionale a fronte di obiettivi già indicati. Ci sono alcune proposte di legge che stanno compiendo il loro iter parlamentare, ma risultano soltanto assegnate o in esame presso una commissione da mesi.

Lo stesso ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin aveva parlato della necessità di una legge nazionale – che ancora non c’è – un anno fa circa, alla fiera Ecomondo. Una legge nazionale servirebbe soprattutto, spiega Munafò, «per dare un quadro omogeneo di indirizzo e omogeneo a tutte le iniziative di livello regionale e locale.

Ad esempio, noi non abbiamo neanche una definizione omogenea del termine consumo di suolo» e spesso le normative regionali sono entrate in vigore prima della definizione degli obiettivi attuali e sono quindi desuete. Secondo Munafò «bisogna sicuramente fare in modo che ci sia un quadro chiaro di riferimento per dare degli indirizzi che sono poi necessari a rivedere ad esempio le previsioni urbanistiche dei piani comunali, per fare in modo che ci sia effettivamente un riorientamento delle azioni sull’esistente».