venerdì 14 settembre 2012

TEORIE. EDGAR MORIN E L'ECONOMIA UMANA. INTERVISTA A CURA DI ELISABETTA ROSASPINA, LA LETTURA, 9 settembre 2012

A 91 anni, non si stanca di chiedere misericordia per il pianeta: «La Terra sta morendo» dice, senza l’enfasi teatrale del protagonista di una catastrofe galattica di celluloide. «La corsa verso l’abisso si è accelerata» considera, sollevando le braccia verso il soffitto della sua casa. «Ma mi sembra di gridare nel deserto» si rammarica, con un sorriso inaspettato.

Sorride, sì, perché il filosofo e sociologo parigino Edgar Morin è ancora un inguaribile ottimista: «C’è una via per uscirne, ma non passa per il rigore, né per la crescita. Perlomeno non la crescita che vogliono i nostri governi. È la via del cambiamento, della trasformazione. Probabilità di farcela? Poche. Ma anche l’improbabile è possibile».
Ad aprile ha pubblicato in Italia La Via. Per l’avvenire dell’umanità (Raffaello Cortina). Tre mesi dopo, Edgar Morin ha sintetizzato le sue proposte in un «manifesto» di appena 57 pagine (edizioni Chiarelettere), firmato con un altro novantenne, Stéphan Hessel, l’ideologo degli «indignati», sotto un titolo quasi apostolico: Il cammino della speranza.
È la guida per i giovani indignati smarriti alla Puerta del Sol di Madrid?
«Non solo quella dei giovani spagnoli, ma anche quella degli americani, di Occupy Wall Street, e della gioventù che ha alimentato la primavera araba e le aspirazioni alla libertà e alla dignità. Di tutta la gioventù che aspira a un altro tipo di vita e di società, a un mondo più giusto, più fraterno, più comunitario. Com’era già accaduto nel maggio del 1968. O prima ancora, durante la Resistenza francese: eravamo giovani anche noi. Io avevo 20 anni, il nostro gran capo, al massimo 25. Sono le aspirazioni fondamentali dell’umanità. Che fine hanno fatto? Ancora una volta sono state deluse, ingannate».
Inevitabilmente?
«Come nel Sessantotto, quando trotskisti e maoisti promettevano di rispondere alle istanze giovanili. Le ultime rivolte hanno un punto in comune: quando la loro giusta collera riesce a rompere il sistema, non ha poi un progetto con cui sostituirlo, una via per proseguire. E così l’evoluzione diventa addirittura regressiva».
Regressiva?
«Quando il comunismo, religione laica del XX secolo, è fallito, la ricerca è tornata sui vecchi paradisi, sia cristiano o musulmano. Lo stesso è accaduto ora in Egitto e in Tunisia, dove a beneficiarne è stato un partito religioso retrogrado. In Spagna, negli Stati Uniti, in Francia il peso della crisi economica ha aggravato la situazione: non è stata trovata la via per il cambiamento».
Che è davvero possibile?
«Sì, a patto di non rincorrere il rigore e la crescita, intesa come profitto. È il momento di un’economia sociale e solidale: non mi riferisco solamente alle cooperative, ma anche a imprese che non abbiano il risultato di bilancio come scopo principale. Occorre aiutare il commercio equo, il rapporto diretto tra il produttore e il consumatore: un po’ ma accade già in alcuni mercati di Parigi, dove i contadini vendono senza intermediari i loro prodotti ai cittadini. Crescita sì, ma di un’economia verde».
Non è il tipo di crescita che invocano i governi europei.
«Quella crescita ci porta contro un muro. Se tutti i cinesi avranno l’auto, il mondo sarà asfissiato. Ma i destini sono inmano ai tecnocrati, che hanno paralizzato il pensiero politico. Deve decrescere l’economia dello spreco e della distruzione, in favore dell’economia bio. Non parlo di pale eoliche. Ma di umanizzare le città, favorire il trasporto pubblico, costruire parcheggi esterni. Quando dico che la Terra sta morendo, non è questione solo di cambio climatico. Il vero problema è l’agricoltura industriale, ormai diffusa coi pesticidi ovunque, soprattutto in Africa e in Asia. È l’allevamento intensivo, che ha già avuto come conseguenza i casi di mucca pazza. La via passa per un ritorno all’agricoltura biologica».
Forse non è economica.
«Al contrario. Non è meno redditizia dell’agricoltura industriale, che provoca ricadute sulla salute e quindi un incremento delle spese sanitarie».
Come mai i politici non ci sentono?
«Perché vivono in un mondo chiuso, avulso dalla realtà comune. Perché intorno a loro c’è una barriera di specialisti che li consigliano e impediscono loro di vedere i problemi nell’insieme. Ma forse possiamo ancora svegliare la classe politica».
Ma i valori da cui dipende la sopravvivenza dell’Unione Europea sembrano essere quelli espressi in punti di spread. Crede nell’Europa?
«Non molto adesso. È troppo divisa, incapace di un rinascimento spirituale e morale. Le differenze sono più importanti dei fattori di unione. Manca una politica estera comune. S’è visto al momento della guerra in Iraq, i Paesi dell’Est erano favorevoli, vedevano una rivincita contro la dittatura. La Francia era contraria, a ragione. E poi ci sono ancora forze antieuropee molto forti: in Francia il partito di Marine Le Pen, in Italia la Lega Nord».
Ai giovani si chiede di imparare a vivere nell’incertezza e nel precariato: non è un po’ ingiusto?
«Fa parte della vita. La mia generazione ha vissuto le insicurezze della guerra, la mancanza di garanzie sociali e sanitarie. Forse 20 o 30 anni fa il posto di lavoro era più sicuro. Ma bisogna sapere accettare i rischi, perché esistono in ogni campo, in amore come nella salute».
Ha scritto che le grandi metamorfosi della storia umana sono state spesso innescate da un messaggio, un’iniziativa percepita come irrilevante dai contemporanei del principe Sakyamuni o di Gesù Cristo, di Cristoforo Colombo o Galileo e Cartesio. Esiste oggi l’uomo del cambiamento?
«Io non vedo nessuno. Né penso di poter essere io, quel profeta».

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