sabato 12 novembre 2011

AFGHANISTAN/TERRITORIO E CARBONE. Forti M., Inferno di carbone, IL MANIFESTO, 9 novembre 2011

«Uomini vestiti di stracci e stivali di gomma, armati di pale e piccoli. Alcuni hanno le costole visibili sotto le camice strappate, il pallore sui volti esausti ricorda quello dei progionieri ai lavori forzati. Lavorano nel profondo di gallerie scavate nelle remote montagne del nord, da cui estraggono carbone per alcuni dei più ricchi imprenditori del paese. Fuori dalle gallerie, altri lavoratori spingono carrelli pieni di carbone giù per il pendio, fazzoletti legate attorno al viso per proteggersi dalla polvere nera. Più giù, ragazzi a piedi nudi sui cumuli di carbone separano a mano i pezzi più grandi, mentre altri raccolgono con la pala le minutaglie che caricano su un camion. Attorno capre cercano qualche erbaccia che spunta tra pezzi di rotaie e cavi di acciaio».


Sembra la descrizione di una miniera settecentesca, salvo qualche dettaglio - inizi della rivoluzione industriale in Inghilterra. Ma no: è il resoconto della visita di un reporter americano alla miniera di Karkar, Afghanistan settentrionale; pubblicata dal gruppo editoriale McClatchy Newspapers, risale a due settimane fa.
L'articolo spiega che questa miniera alimenta l'unica fabbrica di cemento dell'Afghanistan, la Ghori Cement Factory. E che l'accoppiata di miniera e cementificio, nella provincia di Baghlan, poco meno di 200 chilometri a nord di Kabul, sono diventati una sorta di emblema della corruzione, del nepotismo e della cattiva gestione che pervadono l'Afghanistan di oggi. Forse, dovremmo aggiungere, un vivido esempio di come condizioni di lavoro malsane, inquinamento e sfruttamento selvaggio si sposano con malaffare e corruzione. Riassumiano. La miniera di Karlar e il cementificio sono in concessione a Mahmoud Karzai, amministratore delegato della Afghan Investment Company, e di Abdul Hussain Fahim, vicepresidente della stessa compagnia. I nomi contano: il primo è uno dei fratelli del presidente Hamid Karzai; l'altro è fratello dell'ex ministro della difesa Mohammad Qasim Fahim, attuale vicepresidente della repubblica. I due hanno chiesto la concessione nel 2006, dichiarando di avere una «cordata» di investitori tra cui raccogliere i capitali necessari a rimettere in funzione l'impresa. Alla fine hanno ottenuto la concessione: anche se nel frattempo gli investitori si erano volatilizzati, e anche se nel frattempo era stato valutato che la ristrutturazione tecnica della miniera e del cementificio avrebbero richiesto oltre 500 milioni di dollari - i nuovi concessionari avevano solo 45 milioni di capitale, incluso un prestito. Una commissione parlamentare aveva cominciato a studiare il caso di Karkar, nell'ambito di un'indagine su come le privatizzazioni di imprese statali avessero favorito una cerchia di parenti di dirigenti del governo. Ma è finita male: un misterioso attentato nel novembre 2007 a Baghlan ha ucciso i 6 deputati della commisione d'indagine, che erano nella provincia per un sopralluogo, insieme ad altre 60 persone.
Il risultato è che oggi la miniera funziona come descritto: mezzi obsoleti, uomini e ragazzi che lavorano senza alcuna protezione, «ogni giorno scendiamo in miniera di nostra volontà e speriamo che Allah ci faccia uscire vivi». Il cementificio funziona al minimo perché manca energia (carbone) e perché solo un impianto su tre è attivo, essendo mandato l'investimento necessario a rimodernare la fabbrica - che pure avrebbe mercato, dato che l'edilizia è una delle attività che più tirano in Afghanistan (il cemento però è importato dal vicino Pakistan).
L'Afghanistan progetta di aprire molte nuove miniere, per mettere a frutto le ricchezze del suo sottosuolo - ferro, carbone, oro, rame, petrolio, pietre prezione - e i primi investitori stranieri a farsi avanti pare siano indiani e cinesi. Quelli occidentali vogliono prima che il governo afghano dia garanzie sulla trasparenza e la protezione dei loro investimenti - il caso Karkar insegna. Le condizioni di lavoro, la salute, la sicurezza? Questo no, non risulta che siano entrate in nessuna trattativa.

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