Ricapitolare le ragioni per prenderci cura dell’ambiente in cui viviamo, conservando come punto di fuga la possibilità sempre presente che questo ambiente finisca, che non sia più per noi accogliente: questa la missione di cui si incarica Marco Pacini nel suo libro Pensare la fine. Discorso pubblico e crisi climatica (Meltemi, 152 pp., € 15).
La Fine può essere scritta con la maiuscola, intendendo con ciò la fine del mondo umano che, per la crisi climatica innescata, rischia di essere assai prossima: fine di un mondo accogliente per noi e per la biodiversità che già inizia a sgretolarsi sotto i nostri occhi, come testimoniano quelle scienze che il discorso pubblico ha relegato a statuto secondario. Una Fine per evitare la quale è saggio tenere fissa davanti al nostro sguardo la fine, con la “f” minuscola: l’urgenza della fine del mondo “carbonfossile” in cui abitiamo, inaugurato dalla macchina a vapore; una fine che contempla, ancora più profondamente, la deposizione del soggetto moderno, l’umano unico detentore di capacità e diritto di disporre di tutto il mondo non-umano.
Quello predicato da Pacini è in primo luogo un materialismo radicale, che ci accompagni al riconoscimento dell’umano come materia relazionale, in un continuo scambio con altra materia non-umana, vivente e non vivente. L’invito è quello ad accedere a un altro pensiero e a un pensiero dell’Altro, di ciò che finora è rimasto confinato al rango di pura risorsa da estrarre e sfruttare. Non si tratta di rigettare completamente i progressi, pur presenti, offerti in epoca moderna dalla rivoluzione antropocentrica, ma di mitigarne gli aspetti più problematici innanzitutto riconoscendo una forma di agentività della Terra, della natura, degli esseri non-umani. Non si tratta, insomma, di agognare il famoso asteroide, o una qualsiasi altra formula di estinzione della specie umana: si tratta, piuttosto, di una ben più modesta, quanto fondamentale ritirata strategica, che trasformi la postura dell’uomo su questo pianeta dal dominio alla responsabilità.
Un invito, quello di Pacini, a uno sforzo intellettuale e politico sovrumano, per farsi responsabili, cioè per rispondere degli esiti delle nostre azioni individuali e collettive; esiti di così ampia portata e così lungo termine da sembrare imprevedibili, e il cui solo pensiero atterrisce, spaventa, paralizza. Pacini, da parte sua, sottolinea, più che un’ansia generalizzata e paralizzante, la presenza di un ottuso ottimismo dovuto a una sorta di soluzionismo tecnologico, che chiude gli occhi di fronte alle più gravi evidenze. Evidenza che, certo, possono spaventare, ma di una paura finalmente mobilitante: la corretta disposizione è quella di un pessimismo preventivo, unica autentica forma di realismo a riparo da escatologie tecnocapitaliste, pacificanti e appaganti.
Si tratta, oggi, di un ripensamento radicale di tutte le categorie filosofiche e politiche che siamo usi considerare assodate: dobbiamo porre parole come “sovranità”, “libertà”, “Stato”, “diritti” nella prospettiva della possibile fine dell’umanità e dell’ambiente che la ospita se non si saprà pensare una fine più discreta del modo di vivere che ci ha condotti fin qui. Si tratta di una vera e propria rivoluzione che non può rimanere soddisfatta di fronte al greenwashing del marketing o alle narrazioni vagheggiate dal pensiero accelerazionista: la festa è finità, dice l’ultimo capitolo; e può anche darsi che parte della popolazione mondiale non sia nemmeno stata invitata, ma ora è un nuovo e responsabile “che fare?” quello a cui siamo chiamati, perché non si avveri lo scenario, drammatico ma possibile, in cui ogni domanda sarà ormai vana. Pensare la fine (del tecno-capitalismo) per evitare la Fine. Perché il capitalismo ha una “sua” ecologia, incompatibile con quella dei viventi.
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