Le nuove cartografie lavorano sui «resti», il lascito del passato bellico ma anche le ambiguità di un sistema simbolico nella vita quotidiana Le mappe di Till Roeskens con i palestinesi nei campi profughi, le basi Usa di An-My Lê.
Paesaggi «neutri» ma disseminati di tracce. Panorami freddi ma innervati da faglie belliche, da cicatrici di uno, dieci, mille conflitti. Coglierne la presenza implica una rimodulazione dello sguardo, una sperimentazione sul sistema di segni attraverso la messa in luce della loro strutturale ambiguità e delle loro possibili metamorfosi.
La guerra, sia essa campale, «a bassa intensità», oppure condotta attraverso l'«imposizione di uno status quo», intrattiene una relazione stretta con gli elementi del decoro naturale che ne delimitano i confini, ne incubano le premesse e possono influenzarne l'esito.
Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto spiegava al suo amico Robert de Saint-Loup che «qualunque stanza può venire trasformata in atelier di pittura ma non tutti i luoghi sono propizi a trasformarsi in campi di battaglia».
Il momento del confronto bellico ha per lungo tempo monopolizzato l'interesse di fotografi di guerra, reporter, giornalisti e documentaristi. Ma cosa succede se l'occhio invece che farsi trascinare dalla concitazione dello scontro, dalla fascinazione del sangue, dai volti di soldati in armi e civili in lacrime prova a soffermarsi sugli spazi che, come il «deserto dei Tartari» osservato dal luogotenente Dogo di Dino Buzzati, non sono la metafora o il teatro di una guerra ma la sua incarnazione orografica?
L'esposizione parigina dedicata alle Topographies de guerre (Le Bal, fino al 18 dicembre) si sofferma sulla segnaletica bellica, sulle strategie di camouflage della tettonica guerriera, sull'ibridazione tra natura e architetture del conflitto effettuando un primo, significativo, rendiconto del lavoro portato avanti in questi ultimi anni da una pluralità di soggetti e collettivi di ricerca.
Le «nuove cartografie» sondano i resti. Indagano non le saturate istantanee della battaglia ma l'aftermath, ciò che resta «dopo la catastrofe», nel tentativo di portare in luce quelli che la sudafricana Jo Radcliffe definisce gli «scenari occulti della guerra». Tracce sovente enigmatiche, che «non si lasciano leggere» se non attraverso rifrazioni ed echi, se non attraverso un incolmabile iato.
Vale la pena sottolineare come la focale dell'esposizione assuma come dato di partenza una critica diretta alla pretesa oggettività scientifica della geografia che non è nè neutrale nè innocua ma, riprendendo il titolo di un famoso libro di Yves Lacoste, è sempre servita «innanzitutto a fare la guerra».
Nella prima sala dell'esposizione parigina campeggiano le fotografie della serie To Face frutto della ricerca effettuata da Paola de Pietri sulle montagne del Carso.
Tra le pieghe di un paesaggio montagnoso apparentemente incontaminato l'artista scopre un «pedigree di morte», lascito di un passato che ha «lavorato» e «antropizzato», vette e panorami, teatro di uno dei conflitti più aspri della guerra 14-18. Lo spazio, ora disertato dall'uomo, in cui si sono mossi, hanno vissuto, scavato trincee nel fango e trovato la morte centinaia di migliaia di soldati.
Spazi e panorami per poter essere conquistati e contesi al nemico debbono venire ingabbiati in un reticolo di segni che ne declinino l'identità.
Jean Yves Jouannais, co-curatore della mostra assieme a Diane Dufour, nell'introduzione al catalogo (Topographie de la guerre edizioni Steidl) radicalizza questo dato svelandone la posta in gioco politica: «La carta non è tanto e solo un accessorio che facilita l'azione di guerra ma è il piano stesso di immanenza della guerra, ciò che le permette di riconoscersi come guerra in quanto tale».
Fuori dalla carta redatta dagli Stati Maggiori, le truppe sono cieche. Fuori dalla carta il conflitto perde le coordinate che gli forniscono il quadro entro cui potersi programmare. Ecco allora delinarsi l'altro portato delle ricerche che a Parigi hanno trovato un interessante vetrina e che consiste nel tentativo di elaborare possibili strategie di decolonizzazione dello spazio e re-invenzione topografica.
Questo tentativo si sviluppa dispiegando metodologie ibride, saperi e approcci multidisciplinari: fotografia, urbanistica, architettura, land art.
Nelle cartografie del paesaggio libanese stratificato da anni di guerra civile, Walid Raad ha provato a riappropriarsi di spazi segnati dal conflitto attraverso tecniche cariche di humour «delirante». Le pastiglie colorate con cui sono stati «obliterati» i fori delle pareti crivellate di proiettili dei palazzi di Beirut rimandano, come precisa l'artista, «non tanto a una memoria personale ma ai fantasmi prodotti dalla memoria collettiva».
Let'be Honest, the Weather Helped, grazie a un'estetica camp, imprime « un oltraggioso make-up sul decoro macabro della guerra» sovrapponendovi un reticolo cartografico libero da riduzioni in scala e carico di un onirismo misterioso.
In gioco c'è la possibilità stessa di progettare «nuovi atlanti». C'è «la rivendicazione del diritto a disegnare cartografia soggettive» che il video artista Till Roeskens con Vidéocartographies: AÏda, Palestine ha testato chiedendo a uomini, donne e bambini palestinesi dei campi profughi di tracciare su un foglio di carta le loro mappe esperienziali, frutto del confronto e del quotidiano relazionarsi con le geografie del controllo imposte da militari e coloni israeliani.
Decolonising Architecture Art Residency, istituto di ricerca che ha sede a Beit Sahour vicino a Betlemme, ha scelto di indagare le aporie e le possibilità di intervento concreto sul territorio piazzandosi anch'esso nel cuore della più paradigmatica «faglia» contemporanea: quel fazzoletto di terra chiamato West Bank. Come si possono sovvertire e contestare, le infrastrutture imposte dall'occupante? Come si può incidere sulla realtà in uno spazio dove l'architettura e l'urbanistica riflettendo plasticamente il clamoroso divario nel rapporto di forza tra le parti in campo diventano elementi centrali del conflitto?
La sfida è resa ancor più complessa dal fatto che la «riorganizzazione della sintassi urbana attraverso azioni microttatiche» come Weizman ha illustrato qualche anno fa nel suo libro Architettura dell'occupazione (Bruno Mondadori, 2009) è stata assimilata dalle stesse forze che intendono mantenere ed estendere il loro dominio su un paesaggio che hanno ridisegnato assogettandolo a dispositivi di tipo militare.
Jouannais parla a questo proposito di «passione panottica» e di «conquista retinica».
Sorprendenti illustrazioni di questa logica si ritrovano nei lavori della fotografa statunitense, nata in Vietnam, An-My Lê e nella serie Watchtower di Donovan Wylie.
An-My Lê interessandosi al campo di addestramento californiano di 29 Palms, utilizzato dalle Forze Armate Usa per preparare i soldati alle guerre in Irak e Afghanistan, mette in luce le pratiche mimetiche che governano il minuzioso lavoro di ricostruzione di decori bellici «più veri del vero», non a caso attuato grazie al contributo di squadre di scenaristi di Hollywood.
La creazione in scala di un paesaggio replicante e di biotopi bellici mostra che più che a una funzione «pedagogica» 29 Palms risponde alla necessità inconscia di creare scenari entro i cui confini allestire rituali di tipo propiziatorio.
La replica compulsiva dei clichés bellici, mimati e riprodotti con cura maniacale non riesce ad occultare il posticcio e patetico tentativo di appropriarsi di un evento che può riprodursi «a freddo» soltanto come parodia.
Donovan Wylie attraverso il suo lavoro fotografico dedicato alle torri di osservazione utilizzate dai militari britannici in Irlanda del Nord e poi trasportate, dopo gli accordi del Venerdi Santo, a migliaia di chilometri di distanza, in Afghanistan, esplora un'altro possibile esito della passione panottica.
Le torri d'osservazione posizionate su un territorio vergine non solo permettono di dominare l'orizzonte con lo sguardo ma certificano la metamorfosi del paesaggio, il suo marchiamento simbolico che lo transigura in «zona di guerra». Limitarsi a una geografia descrittiva appare quindi non solo un'impresa illusoria ma smaccatamente ideologica. Il bisogno di tracciare nuove mappe capaci di restituire le tensioni e le contraddizioni del presente offre invece - come nota Jouannais - «mille opportunità di ripoliticizzazione del discorso geografico, urbanistico e architettonico». Restituendo la parola a chi nei paesaggi umani vive e a chi le frontiere tracciate sulla carta intende attraversarle svelandone la violenza e l'artificiosità.
La guerra, sia essa campale, «a bassa intensità», oppure condotta attraverso l'«imposizione di uno status quo», intrattiene una relazione stretta con gli elementi del decoro naturale che ne delimitano i confini, ne incubano le premesse e possono influenzarne l'esito.
Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto spiegava al suo amico Robert de Saint-Loup che «qualunque stanza può venire trasformata in atelier di pittura ma non tutti i luoghi sono propizi a trasformarsi in campi di battaglia».
Il momento del confronto bellico ha per lungo tempo monopolizzato l'interesse di fotografi di guerra, reporter, giornalisti e documentaristi. Ma cosa succede se l'occhio invece che farsi trascinare dalla concitazione dello scontro, dalla fascinazione del sangue, dai volti di soldati in armi e civili in lacrime prova a soffermarsi sugli spazi che, come il «deserto dei Tartari» osservato dal luogotenente Dogo di Dino Buzzati, non sono la metafora o il teatro di una guerra ma la sua incarnazione orografica?
L'esposizione parigina dedicata alle Topographies de guerre (Le Bal, fino al 18 dicembre) si sofferma sulla segnaletica bellica, sulle strategie di camouflage della tettonica guerriera, sull'ibridazione tra natura e architetture del conflitto effettuando un primo, significativo, rendiconto del lavoro portato avanti in questi ultimi anni da una pluralità di soggetti e collettivi di ricerca.
Le «nuove cartografie» sondano i resti. Indagano non le saturate istantanee della battaglia ma l'aftermath, ciò che resta «dopo la catastrofe», nel tentativo di portare in luce quelli che la sudafricana Jo Radcliffe definisce gli «scenari occulti della guerra». Tracce sovente enigmatiche, che «non si lasciano leggere» se non attraverso rifrazioni ed echi, se non attraverso un incolmabile iato.
Vale la pena sottolineare come la focale dell'esposizione assuma come dato di partenza una critica diretta alla pretesa oggettività scientifica della geografia che non è nè neutrale nè innocua ma, riprendendo il titolo di un famoso libro di Yves Lacoste, è sempre servita «innanzitutto a fare la guerra».
Nella prima sala dell'esposizione parigina campeggiano le fotografie della serie To Face frutto della ricerca effettuata da Paola de Pietri sulle montagne del Carso.
Tra le pieghe di un paesaggio montagnoso apparentemente incontaminato l'artista scopre un «pedigree di morte», lascito di un passato che ha «lavorato» e «antropizzato», vette e panorami, teatro di uno dei conflitti più aspri della guerra 14-18. Lo spazio, ora disertato dall'uomo, in cui si sono mossi, hanno vissuto, scavato trincee nel fango e trovato la morte centinaia di migliaia di soldati.
Spazi e panorami per poter essere conquistati e contesi al nemico debbono venire ingabbiati in un reticolo di segni che ne declinino l'identità.
Jean Yves Jouannais, co-curatore della mostra assieme a Diane Dufour, nell'introduzione al catalogo (Topographie de la guerre edizioni Steidl) radicalizza questo dato svelandone la posta in gioco politica: «La carta non è tanto e solo un accessorio che facilita l'azione di guerra ma è il piano stesso di immanenza della guerra, ciò che le permette di riconoscersi come guerra in quanto tale».
Fuori dalla carta redatta dagli Stati Maggiori, le truppe sono cieche. Fuori dalla carta il conflitto perde le coordinate che gli forniscono il quadro entro cui potersi programmare. Ecco allora delinarsi l'altro portato delle ricerche che a Parigi hanno trovato un interessante vetrina e che consiste nel tentativo di elaborare possibili strategie di decolonizzazione dello spazio e re-invenzione topografica.
Questo tentativo si sviluppa dispiegando metodologie ibride, saperi e approcci multidisciplinari: fotografia, urbanistica, architettura, land art.
Nelle cartografie del paesaggio libanese stratificato da anni di guerra civile, Walid Raad ha provato a riappropriarsi di spazi segnati dal conflitto attraverso tecniche cariche di humour «delirante». Le pastiglie colorate con cui sono stati «obliterati» i fori delle pareti crivellate di proiettili dei palazzi di Beirut rimandano, come precisa l'artista, «non tanto a una memoria personale ma ai fantasmi prodotti dalla memoria collettiva».
Let'be Honest, the Weather Helped, grazie a un'estetica camp, imprime « un oltraggioso make-up sul decoro macabro della guerra» sovrapponendovi un reticolo cartografico libero da riduzioni in scala e carico di un onirismo misterioso.
In gioco c'è la possibilità stessa di progettare «nuovi atlanti». C'è «la rivendicazione del diritto a disegnare cartografia soggettive» che il video artista Till Roeskens con Vidéocartographies: AÏda, Palestine ha testato chiedendo a uomini, donne e bambini palestinesi dei campi profughi di tracciare su un foglio di carta le loro mappe esperienziali, frutto del confronto e del quotidiano relazionarsi con le geografie del controllo imposte da militari e coloni israeliani.
Decolonising Architecture Art Residency, istituto di ricerca che ha sede a Beit Sahour vicino a Betlemme, ha scelto di indagare le aporie e le possibilità di intervento concreto sul territorio piazzandosi anch'esso nel cuore della più paradigmatica «faglia» contemporanea: quel fazzoletto di terra chiamato West Bank. Come si possono sovvertire e contestare, le infrastrutture imposte dall'occupante? Come si può incidere sulla realtà in uno spazio dove l'architettura e l'urbanistica riflettendo plasticamente il clamoroso divario nel rapporto di forza tra le parti in campo diventano elementi centrali del conflitto?
La sfida è resa ancor più complessa dal fatto che la «riorganizzazione della sintassi urbana attraverso azioni microttatiche» come Weizman ha illustrato qualche anno fa nel suo libro Architettura dell'occupazione (Bruno Mondadori, 2009) è stata assimilata dalle stesse forze che intendono mantenere ed estendere il loro dominio su un paesaggio che hanno ridisegnato assogettandolo a dispositivi di tipo militare.
Jouannais parla a questo proposito di «passione panottica» e di «conquista retinica».
Sorprendenti illustrazioni di questa logica si ritrovano nei lavori della fotografa statunitense, nata in Vietnam, An-My Lê e nella serie Watchtower di Donovan Wylie.
An-My Lê interessandosi al campo di addestramento californiano di 29 Palms, utilizzato dalle Forze Armate Usa per preparare i soldati alle guerre in Irak e Afghanistan, mette in luce le pratiche mimetiche che governano il minuzioso lavoro di ricostruzione di decori bellici «più veri del vero», non a caso attuato grazie al contributo di squadre di scenaristi di Hollywood.
La creazione in scala di un paesaggio replicante e di biotopi bellici mostra che più che a una funzione «pedagogica» 29 Palms risponde alla necessità inconscia di creare scenari entro i cui confini allestire rituali di tipo propiziatorio.
La replica compulsiva dei clichés bellici, mimati e riprodotti con cura maniacale non riesce ad occultare il posticcio e patetico tentativo di appropriarsi di un evento che può riprodursi «a freddo» soltanto come parodia.
Donovan Wylie attraverso il suo lavoro fotografico dedicato alle torri di osservazione utilizzate dai militari britannici in Irlanda del Nord e poi trasportate, dopo gli accordi del Venerdi Santo, a migliaia di chilometri di distanza, in Afghanistan, esplora un'altro possibile esito della passione panottica.
Le torri d'osservazione posizionate su un territorio vergine non solo permettono di dominare l'orizzonte con lo sguardo ma certificano la metamorfosi del paesaggio, il suo marchiamento simbolico che lo transigura in «zona di guerra». Limitarsi a una geografia descrittiva appare quindi non solo un'impresa illusoria ma smaccatamente ideologica. Il bisogno di tracciare nuove mappe capaci di restituire le tensioni e le contraddizioni del presente offre invece - come nota Jouannais - «mille opportunità di ripoliticizzazione del discorso geografico, urbanistico e architettonico». Restituendo la parola a chi nei paesaggi umani vive e a chi le frontiere tracciate sulla carta intende attraversarle svelandone la violenza e l'artificiosità.
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