Il nuovissimo quartier generale della televisione di Stato cinese domina e nobilita lo skyline
di Pechino. Il grattacielo sghembo, torto e ripiegato su se stesso, disegnato
dall'olandese Ole Scheeren, partner dell'architetto cult Rem Koolhaas nello studio
Oma, è già entrato di diritto tra i grandi edifici del Terzo Millennio.
Ad Astana, capitale del Kazakhstan, la città costruita dal nulla nella steppa asiatica, a
marchiare il paesaggio urbano è la forma piramidale che Lord Norman Foster, già
ideatore della cupola del Reichstag di Berlino, ha dato al Palazzo della Pace e
della Riconciliazione.
Entro il 2012, verrà completato il Louvre di Abu Dhabi, un progetto pensato dal francese Jean Nouvel, parte del
complesso culturale di Saadiyat Island, dove saranno impegnati anche
l'americano Frank Gehry, padre del Guggenheim di Bilbao, e l'anglo-irachena
Zaha Hadid, celebre in Italia per il Maxxi di Roma.
Cosa lega queste opere
architettoniche, oltre a essere firmate ognuna da
altrettante stelle della disciplina, o come vuole il neologismo da archistar?
Sono tutte costruite in Paesi autoritari o nel migliore dei casi autocratici.
Sono tutte cioè frutto della volontà di auto-rappresentazione di un regime o di un leader, che con la democrazia hanno poco o nulla a che fare. E non sono eccezioni, ma gli esempi più emblematici di una sorta di corsa all'Est, che negli ultimi anni ha visto schiere di studi d'architettura occidentali gettarsi a capofitto nei cantieri delle arrembanti potenze economiche d'Oriente.
Proprio per questa ragione si trovano al centro di polemiche e controversie, corni di un
dibattito antico e millenario, ma in questi mesi riacceso da nuovo vigore e
punte inedite di virulenza polemica.
È giusto progettare il tempio dell'informazione televisiva, per conto di un Paese che trova nella censura uno dei pilastri
della sua stabilità? O edificare un luogo dedicato alla «pace e alla convivenza
tra i popoli» a maggior gloria di Nursultan Nazarbayev, cacicco dell'ultimo
Politburo dell'Urss, presidente che viene eletto col 92% dei voti e guida un
Parlamento composto di soli deputati del suo partito? E ancora, non sarebbe il
caso di porsi un problema etico, di fronte all'abuso di migliaia di lavoratori
immigrati, sottopagati e tenuti in condizioni subumane, che è pratica comune
nei cantieri edili degli Emirati del Golfo?
Francesco Dal Co, direttore di Casabella, non nega l'«esistenza di un problema morale», ma allarga il
campo. «Da Giustiniano ai Papi, ai principi del Rinascimento, tutta la storia
dell'architettura è stata scritta da opere edificate a maggior gloria del committente.
Leon Battista Alberti diceva che ogni lavoro architettonico è "figlio di
un padre e di una madre". Appunto, l'architetto e il principe». Con una
differenza sostanziale, che gli edifici sfidano i secoli e gli autocrati
passano: «Il problema per un architetto è concepire cose in grado di
sopravvivere alla celebrazione di un potere contingente: nel rapporto critico
col grande committente, un grande artista cerca la sua vera libertà. Quello che
non avviene nel caso di Albert Speer e Hitler, dove l'architetto annulla ogni
ricerca di libertà e accetta con la sua opera di dover rendere eterno il
regime». Detto questo, Dal Co ammette che avrebbe «molti dubbi a progettare per
un dittatore».
«L’architettura racconta una storia, è rappresentazione di una civiltà e di una comunità - dice
Renzo Piano - e dove c'è un regime autoritario non c'è civiltà». Probabilmente
il più cosmopolita dei grandi architetti contemporanei, Piano rifiuta ogni
facile moralismo, ma dice semplicemente: «Avrei serie difficoltà ad accettare
di raccontare una storia che non mi piace».
Alcuni architetti si sono dati una carta dei princìpi. È il caso di Richard Rogers, che proprio con Piano firmò negli
anni settanta il Centre Pompidou a Parigi, ormai un'icona culturale della
capitale francese. Il suo studio, Rogers Stirk Harbour + Partners, accetta solo
lavori che portino un beneficio alla società, rifiuta ogni incarico da
istituzioni militari o collegato a potenziali danni all'ambiente, come una
centrale nucleare e valuta preventivamente le condizioni democratiche del Paese
dove dovrebbe lavorare. Di recente ha declinato un'offerta per costruire un
Tribunale in Arabia Saudita.
Certo, c'è progetto e progetto. «Progettare una scuola in Cina è probabilmente diverso che
progettarvi il ministero della Propaganda», dice l'architetto newyorkese
Michael Sorkin. «È una differenza sottile, che può mettere a posto la coscienza
personale», chiosa Vittorio Gregotti, che in Cina ha lavorato per molti anni,
ma mai per opere celebrative. «La cosa fondamentale però - dice il decano del
modernismo italiano - è avere un rapporto critico con la realtà, una distanza
dallo stato delle cose. Quello che purtroppo spesso manca proprio a tante
archistar, impegnate a inseguire le mode, celebrare il marketing, teorizzare
l'anti-città».
Il punto è se esista un'architettura impermeabile all'autoritarismo, dal momento che ogni edilizia pubblica
celebra un uso collettivo e inevitabilmente chi lo realizza. Dopotutto,
l'architettura pubblica in un regime autoritario è l'espressione fisica di una
particolare nozione d'ordine, il messaggio più chiaro di come quel potere
intende essere percepito.
Con voluto intento provocatorio, l'architetto milanese Mauro Galantino risponde positivamente,
indicando ad esempio della possibilità di fare architettura anche in assenza di
democrazia, la Casa del Fascio di Como, «opera del fascistissimo» Giuseppe
Terragni: «L'architettura anti-autoritaria trasfigura la tradizione rendendola
non manipolabile per la propaganda. Nella casa di Terragni, luogo, tradizione e
spazio collettivo sono talmente equilibrati ed espressi con uno stile
anti-figurativo da poter passare senza colpo ferire da un regime a una
democrazia ed essere difesi, come fu il caso, da Bruno Zevi, esponente del Cln,
che salvò l'edificio per il suo assoluto valore artistico».
Refrattaria al totalitarismo è insomma
«l'architettura, che costruisce le sedi del potere con gli stessi mezzi
espressivi con cui fa le case popolari». E qui Galantino rovescia l'onere della
prova, con un altro genere di j'accuse alle archistar. Non tanto colpevoli di
lavorare per i dittatori, quanto di «costruire cattedrali al nulla per clienti
democratici, usando un'architettura dittatoriale, enfatica e celebrativa,
basata sul gigantismo immotivato, che non può essere ripetuta per una casa
popolare, un asilo, una chiesa di quartiere». Colpevoli, detto altrimenti, di
«sostituire lo stupore all'emozione».
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