Fino alla fine del primo decennio di
questo nuovo secolo, gli abitanti delle aree rurali sono stati la parte
nettamente prevalente della popolazione mondiale. Ancora nel 1950, quando le
uniche metropoli del mondo sopra i 10 milioni di abitanti erano New York e
Tokyo, viveva nelle città meno di un terzo degli abitanti del pianeta. Il 50
per cento è stato superato solo nel 2009, e le previsioni ci dicono che a metà
XXI secolo la popolazione urbana potrà arrivare a essere il doppio rispetto a
quella rurale.
Il numero 519 de LE SCIENZE è dedicato a IL FUTURO DELLE CITTA'Nonostante il forte impulso recente, il processo che ha portato le città a imporsi e a ospitare ora la parte quantitativamente prevalente della vita umana ha però radici lontane. Già alla fine del Pleistocene i nostri antenati si trovavano diffusi praticamente in ogni parte del globo terrestre, adattandosi alle situazioni ambientali più diverse. Ma solo con la rivoluzione del Neolitico inizia la vera storia della civiltà. Forse anche sollecitato da un cambiamento climatico che restringe in molte aree la possibilità di sostenersi tramite caccia e raccolta, l’uomo inizia a coltivare la terra e ad allevare animali. Diventa progressivamente
stanziale, costruisce abitazioni in
villaggi sempre più ampi e cinti da mura sempre più alte e solide. Aumenta,
quindi, la popolazione, e nascono i primi agglomerati urbani. Dai circa cinque
milioni di abitanti sparsi sul pianeta, si sale fino a oltre i 250 milioni
all’epoca della Roma imperiale.
Questo vivere in modo stanziale in comunità dense, vantaggioso sotto molti aspetti, peggiora però le condizioni di sopravvivenza. Rispetto ai cacciatori, la dieta degli agricoltori diventa infatti più povera e meno varia, basata soprattutto sui cereali. Inoltre, la maggiore densità di popolazione e il continuo contatto con gli animali aumentano i rischi di insorgenza e diffusione di malattie infettive. Ma è soprattutto in questa nuova fase che nascono e si consolidano profonde disuguaglianze territoriali e sociali. Prima del Neolitico ciascun essere umano viveva di caccia e raccolta, procurandosi giorno per giorno il cibo necessario per sopravvivere. Qualsiasi attività veniva compiuta usando solamente la forza delle gambe e delle braccia del singolo. Non ci sono differenze sociali e territoriali: tutti gli uomini si trovano ovunque nelle stesse precarie condizioni di sussistenza.
Questo vivere in modo stanziale in comunità dense, vantaggioso sotto molti aspetti, peggiora però le condizioni di sopravvivenza. Rispetto ai cacciatori, la dieta degli agricoltori diventa infatti più povera e meno varia, basata soprattutto sui cereali. Inoltre, la maggiore densità di popolazione e il continuo contatto con gli animali aumentano i rischi di insorgenza e diffusione di malattie infettive. Ma è soprattutto in questa nuova fase che nascono e si consolidano profonde disuguaglianze territoriali e sociali. Prima del Neolitico ciascun essere umano viveva di caccia e raccolta, procurandosi giorno per giorno il cibo necessario per sopravvivere. Qualsiasi attività veniva compiuta usando solamente la forza delle gambe e delle braccia del singolo. Non ci sono differenze sociali e territoriali: tutti gli uomini si trovano ovunque nelle stesse precarie condizioni di sussistenza.
È solo dopo la rivoluzione del Neolitico che il mondo progressivamente si popola di re e regine, sacerdoti e soldati, sudditi e schiavi. Nascono i primi nuclei di città, con istituzioni sociali, regole di convivenza, caste, ma anche stimolo al confronto, alle relazioni commerciali, alla conoscenza e all’innovazione continua. Nella polis l’uomo diventa un animale «politico»: ciascuno con un suo ruolo e una sua funzione all’interno di una comunità sempre più complessa e stratificata. E proprio grazie alla specializzazione e all’organizzazione gerarchica del lavoro diventano possibili cose che prima erano considerate umanamente irrealizzabili. Piramidi, cattedrali e castelli possono essere costruiti grazie alla possibilità dell’animale politico di andare oltre la semplice energia prodotta dai propri muscoli e di usare anche la forza di altri uomini sottoposti e di altri animali addomesticati. Le città diventano il laboratorio per la costruzione di un nuovo mondo, più simile alle ambizioni dell’uomo che ai vincoli di natura.
Rivoluzione comunal-cittadina
Un altro momento chiave dell’imporsi delle città e del loro impulso sullo sviluppo economico e sociale è quello che si produce in Italia poco meno di 1000 anni fa. Lo storico economico Carlo Maria Cipolla parla, non a caso, di rivoluzione comunal-cittadina. È la rivoluzione che traghetta l’Europa fuori dal sottosviluppo per riportarla al centro dei commerci, della cultura, dell’arte e dell’innovazione tecnica, ponendo anche le premesse sia del Rinascimento sia della rivoluzione scientifica.
Attorno all’anno 1000 l’Europa era un’area sottosviluppata, decisamente arretrata rispetto al mondo arabo e bizantino. La produttività della terra era scarsa e le difficoltà di trasformazione e commercializzazione dei prodotti rendevano l’agricoltura strutturalmente debole. Tuttavia, tra XI e XIII secolo la situazione muta radicalmente. L’Europa esce dall’atteggiamento di sfiducia verso il mondo esterno e il mercato che caratterizzava l’economia curtense alto medioevale. L’Italia centro-settentrionale si pone al centro di questo processo e le sue città divengono il motore di un nuovo processo di sviluppo. La struttura sociale si articola superando la tradizionale dicotomia che contrapponeva i nobili proprietari fondiari alla plebe. Si affermano nuovi ceti soprattutto su impulso della crescita dei settori più dinamici, come quello mercantile e manifatturiero.
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