Triulzi, A., Recensione a F. Remotti, Luoghi e corpi, in L'Indice, 11, 1994
Da vari anni Francesco Remotti studia i problemi collegati alla mobilità e alla ritualità del potere in Africa. Questo volume, frutto di un corso tenuto presso l'Università di Torino, è in qualche modo l'approfondimento di "Centri, ritualità e potere", un lavoro curato dell'autore per Il Mulino (1989) insieme con Pietro Scarduelli e Ugo Fabietti. "Luoghi e corpi" riassume alcune riflessioni teoriche di grande attualità dell'antropologia contemporanea, chiamata in causa particolarmente oggi a spiegare quel "sapere un po' sporco" che è la scomparsa e permanenza del potere nelle società tradizionali.
Per fare ciò l'autore esamina la "cultura" come "segno impresso nello spazio" e la sua capacità modificatrice sulla "natura" umana: una cultura dunque intesa nel senso del latino 'colere': abitare (un luogo), coltivare (un campo), ornare (un corpo), venerare (una divinità). Tutte attività fluide che implicano rimandi e contaminazioni reciproche tra due referenti classici dell'antropologia e costringono il lettore, come ogni buon testo antropologico deve fare, a una riflessione sul Noi mediata attraverso lo svelamento, dell'Altro.
Per Remotti il sapere dell'antropologo non deve cercare di mettere ordine nel "disordine etnografico" ma piuttosto andare incontro a quelle "antropologie già costruite" all'interno delle società tradizionali che egli dovrà confrontare e tradurre, e dunque "connettere", con quelle proprie: "L'obiettivo dell'antropologo non è quello di ricostruire un sistema di categorie, quanto piuttosto cogliere un insieme di nessi". L'antropologia è sempre l'incontro di due saperi, un prodotto dialogico partecipato e collettivo. Le connessioni che Remotti individua tra spazio, tempo e potere stanno a dimostrarlo.
A cominciare da quella stessa "parabola del potere" - la definizione è di Marino Niola - che è rappresentata dagli attributi simbolici connessi con la deperibilità, precarietà e mobilità dell'autorità regale e della sua visibilità politica (il corpo del re, la capitale dello stato) nelle società africane tradizionali. Il carattere eccezionale del potere si mostra per Remotti in molte società politiche africane (dagli Ankole agli Azande, dai Nande ai Bunyoro) attraverso una serie di manifestazioni simboliche che mettono in luce i tre elementi-chiave del potere in Africa: le sue origini straniere, la contrapposizione con la "società", la sua natura essenzialmente precaria. Intorno a questi tre elementi, e ai loro molteplici collegamenti spazio-temporali, Remotti indaga a lungo, legando segni a significati, e intrecciando il suo sapere antropologico, e la sua riflessione teorica, con quella storicamente elaborata dalle società tradizionali in statuti normativi continuamente adattati ai mutati contesti politici.
"La capitale dello Stato è la tenda del Re" - così riferisce la tradizione etiopica, e cosi è tradizionalmente tra i Ganda o i Banyoro dell'Africa orientale. Le capitali mobili africane, contrapponendosi ai poteri locali del clan o del villaggio, rappresentano in qualche modo visivamente l'eccezionalità del potere e allo stesso tempo la sua transitorietà. Così la morte del sovrano tra gli Azande, come nel regno del Buganda, dà luogo al collasso simbolico dello stato: le leggi non vengono più osservate, i mercati vengono chiusi, i ruoli tradizionali sono invertiti. Dalla società ordinata del re si passa al disordine acefalo e all'anemia che fanno seguito alla sua morte. Attraverso la sua scomparsa lo stato ripercorre il processo formativo delle sue stesse origini.
A decesso avvenuto infatti, il corpo del re viene allontanato dalla capitale che cessa così di essere il luogo del potere. Questo complesso atto di separazione - del re dal suo corpo, delle sue spoglie dalla capitale, della capitale dallo stato - evidenzia la differenziazione primordiale tra potete e società che è all'origine dello stato, e si esplicita con la creazione stessa della capitale e la sua usuale collocazione in luoghi elevati, quasi a significare il distacco e finanche l'estraneità del potere politico (centralizzato) rispetto ai poteri clanici (locali). Eppure, l'interruzione stessa del potere causata dalla morte del re annulla in qualche modo il distacco iniziale. La capitale "scompare", e con essa la primordiale differenziazione, per riapparire subito dopo con l'elezione di un nuovo re, un nuovo centro politico, secondo un modello di continuità-discontinuità che si rinnova ciclicamente anche se in modo irripetibile: "La vecchia capitale è definitivamente abbandonata (in certi casi data alle fiamme); il sito non può essere rioccupato da un'altra capitale; il centro del potere non si rigenera nello stesso luogo; non vi è ripetizione dal punto di vista spaziale. Anche i vecchi funzionari decadono e sono sostituiti. Luoghi e personaggi del potere mutano... Il regno si rigenera; il centro del potere si impone di nuovo. Vi è ciclicità e ripetibilità in questo; ma l'irripetibilità dei luoghi e dei corpi (dei personaggi) del potere spezza la ciclicità e introduce un mutamento irreversibile. La capitale (come la luna) si ripresenta, ma non è la stessa capitale (la stessa luna) di prima".
Ma non tutto deperisce e riemerge. Dal corpo decomposto del re, abbandonato alla natura, viene staccata la mascella inferiore, simbolo della permanenza della regalità nel tempo e suo "corpo politico", che verrà conservata in un rituale " tempio del mascella" intorno al quale la predizione del futuro viene operata attraverso la possessione dello spirito del sovrano defunto. Così, non intorno al corpo mortale del re, ma intorno a quello "politico" simboleggiato dalla sua mascella, il passato si ricollega al futuro, e ne diventa in qualche modo la guida. I templi della mascella, continuamente riparati e riedificati rappresentano in tal modo, "iscritti" nello spazio, la storia dinastica del paese. Ciò che scompare, ciò che rimane, ciò che riemerge sono le tre categorie necessarie alla permanenza dello stato, della politica, del potere.
Sono queste categorie che spiegano perché i Nande dello Zaire seppelliscono i loro morti nel bananeto dietro casa, luogo di oblio e "pattumiera" del villaggio, ma allo stesso tempo luogo di rigenerazione di cibo e dunque di vita; perché i capi Nkore (Ankole) in Uganda assumono il potere alla morte del re solo dopo aver rimesso in piedi e battuto il tamburo simbolo della regalità (Bagyendanwa) simbolicamente capovolto alla morte del sovrano; o perché infine tra gli Swazi dell'Africa meridionale la capitale dello stato viene ritualmente saccheggiata alla morte del sovrano per essere poi risacralizzata dal nuovo re con una danza rituale svolta a capo dell'esercito reale.
È come se ogni società politica - non solo nell'Africa subsahariana - avesse il bisogno, conclude Remotti, di risalire periodicamente al patto sociale originario, quella "convenzione" che è alla base stessa della società civile, l'unica che può ridare senso alla struttura e alle regole della convivenza sociale. Ma per fare questo - ed è qui l'insegnamento dell'antropologia - occorre dolorosamente risalire alle origini del Noi, e mettere in discussione le basi stesse del nostro vivere insieme, ogni volta decostruendo e ricostruendo le nuove forme e le rinnovate regole comuni della società politica in evoluzione.
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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