Chiunque rilegga la storia d’Italia degli ultimi trent’anni, verificherà che è contrassegnata da un legame intenso tra le ricorrenti catastrofi nazionali e l’economia che intorno ad esse si è sviluppata. Fu Ada Becchi Collidà a studiare prima e meglio di tutti, si era negli anni Ottanta, le chances economiche del disastro.
Senza il terremoto la Dc irpina non avrebbe preso possesso del partito e del governo (sette ministri campani nell’esecutivo degli anni del post sisma).
Ascolta il discorso del presidente Pertini che denuncia i ritardi degli interventi di soccorso dopo il terremoto in Irpinia il 23 novembre 1980
Il budget della catastrofe promosse l’opa politica, i miliardi di lire allora spesi servirono anche a rastrellare coscienze e voti. La catastrofe come grande opportunità non è soltanto immortalata nella conversazione telefonica notturna della cricca aquilana. Ha strutturato negli anni la figura dell’occasionista, il politico che nel lutto trae linfa vitale, forza propulsiva per la sua carriera di governo, colui che coniuga la morte come benedizione divina, ferita da sanare al più presto, danno da risarcire generosamente: perciò più finanziamenti e possibilmente una gestione extra delle spese per la ricostruzione.
I disastri nazionali hanno un valore diseguale e vengono valutati nella contabilità dello Stato a seconda dell’emozione che producono nella coscienza collettiva. Le immagini di morte delle Cinque Terre, meraviglia dell’Unesco, hanno già prodotto un forte e sincero choc nazionale, e rispetto per la compostezza con la quale le vittime stanno affrontando la sciagura, e il desiderio di stare loro accanto. Anche la partecipazione emotiva ha un suo ruolo nella qualità e quantità dello stanziamento dei fondi. La catastrofe umanitaria dell’Irpinia (quasi tremila morti e più di ottomila feriti) ha prodotto negli infiniti anni della ricostruzione un sovrabudget incalcolabile. I conti non sono precisi ma certo più di trenta miliardi furono inghiottiti, troppe volte senza un senso e senza vergogna. Non sempre è così, non ovunque è così. Conta il danno ma contano anche le morti. Chi muore e come muore. I morti del terremoto dell’Umbria e delle Marche (1997) furono pochi e per lo più anziani. Fu una morte banale, quasi tranquilla: chi cedette all’infarto seguito alla paura, chi rovinò sul marciapiede per una caduta nella corsa alla salvezza. E lo Stato si comportò di conseguenza: le somme stanziate nell’anno successivo ammontarono a 4.810 euro pro capite. Nulla in confronto alla scena sconvolgente delle ventisette bare bianche, dei ventisette corpicini sepolti dal cemento della scuola di San Giuliano di Puglia, l’unico fabbricato a venire raso al suolo dal sisma. Quei bimbi fecero piangere tutta l’Italia e quel pianto produsse una imponente, spropositata massa di aiuti che risultò pari, dopo dodici mesi, all’impegno di spesa di 27.027 euro per ciascuno degli abitanti molisani (anno 2002) colpiti, di riffa o di raffa, dal terremoto. Quasi sette volte in più. E la scena televisiva della morte dell’Aquila, il grande fondale dietro il quale la Protezione civile operò, ha fatto sì che nel primo anno si riuscisse a spendere in quella città circa un miliardo di euro. Un fiume di danaro senza pari che ha piegato le coscienze e coperto ogni speranza di rinascita per quella comunità. Ferma ad allora, alla fantastica era Bertolaso.
Le catastrofi alimentano il fatturato nazionale e sono chance irripetibili per chi gestisce i fondi. Guido Bertolaso grazie al dominio dell’industria del dolore è divenuto l’uomo più potente d’Italia. Solo lui poteva spendere, e solo lui non doveva fare i conti con Tremonti. Lui, sempre lui, firmava assegni, decideva, autorizzava, revocava.
Non ci vorranno molte ore e anche l’alluvione della Lunigiana rientrerà nel format dell’”occasione di sviluppo”. Bisogna investire di più e meglio nella prevenzione, stanziare i fondi per il dissesto idrogeologico, curare i sottoboschi, aiutare i contadini a curare le terre. Tutte cose che si diranno ma che non si faranno.
Quel che si farà sono le cose che tirano veramente: le opere non sottoposte a gara, definite di grande necessità e urgenza. In queste ore è tutta una battaglia, un cerca/trova. Servono bulldozer e cemento armato, gru e scavatori. Poi il piano di rientro, il cosiddetto reinsediamento. Intanto l’alloggiamento provvoisorio negli alberghi. I politici della catastrofe in genere hanno una unica necessità: allungare il più possibile l’emergenza. Più lunga è, più elevati i costi di gestione, più pingue il bottino di guerra. Quanto vale la frana di Giampilieri a Messina? E chi lo sa? Quanto costa la trentennale emergenza acqua di Reggio Calabria? E chi lo sa!
Siamo un last minute country. Paese dell’ultimo minuto, innamorato perso dei disastri. La sciagura tira e produce fatturato. La sciagura ci rende felici.
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