La polizia ha interrotto in maniera violenta una marcia pacifica contro la costruzione della mega-opera. Sullo sfondo della protesta emergono le divisioni sempre più profonde fra il presidente e le comunità indigene che furono essenziali per la sua elezione
Dal punto di vista dei nativi bolivianiIL FATTO, 26-09-2011
Che il progetto della nuova autostrada amazzonica sarebbe diventato una rogna per il presidente boliviano Evo Morales lo si era capito a Manaus, Brasile, a metà agosto. Lì, durante il vertice internazionale dei popoli indigeni del bacino amazzonico Nelly Romero, leader Guaranì della Cidob, la federazione dei popoli indigeni dell’Amazzonia boliviana, aveva tenuto un discorso molto duro contro Morales, primo presidente indigeno della storia latinoamericana, accusandolo di aver tradito l’ispirazione originaria del suo governo e anche la fiducia dei movimenti indigeni boliviani, che tanto si erano mobilitati per la sua vittoria elettorale.
Il progetto contestato dai guaranì e dagli altri popoli dell’Amazzonia boliviana (l’oriente del paese, quasi un terzo della superficie totale) è quello del ramo boliviano del futuro collegamento autostradale che da Manaus, in Brasile, dovrebbe arrivare fino a Manta, porto ecuadoriano sul Pacifico. Un pezzo del tratto boliviano, quello che va dalla città di Cochabamba, alle pendici dell’altopiano andino, fino alla città di San Ignacio de Moxos, in Amazzonia, dovrebbe attraversare l’area del Territorio indigeno e parco naturale Isiboro Sécure (Tipnis), una zona dove vivono 16 comunità indigene, per un totale di circa 50 mila persone. Da queste comunità è partita la protesta contro il governo, accusato di perseguire una politica favorevole alle industrie minerarie e alle grandi opere che contrasta con i principi di difesa della Pachamama (la Madre terra) sanciti anche nella nuova costituzione boliviana, approvata con un referendum promosso dal governo a febbraio del 2009. L’intero progetto, peraltro, viene finanziato dal Brasile e realizzato da un’azienda brasiliana.
La protesta ha assunto la forma di una marcia pacifica, partita poco dopo metà agosto dalla città di Trinidad, capoluogo del dipartimento del Beni (nord est della Bolivia) e che avrebbe dovuto concludersi nella capitale La Paz,500 chilometri dopo. Ieri, però, a 250 chilometri dall’arrivo, la marcia è stata interrotta dalla polizia in tenuta antisommossa. La polizia ha intercettato la colonna di manifestanti nella cittadina di Yucumo, a nordest di La Paz. La motivazione ufficiale che ha spinto il governo a schierare i reparti antisommossa è che a Yucumo alcune centinaia di persone favorevoli al progetto di autostrada avevano bloccato con una barricata la strada su cui procedevano gli indigeni amazzonici. La polizia avrebbe dovuto prevenire scontri tra i due gruppi, ma l’effetto immediato è stato che la marcia di protesta è stata interrotta. Secondo la stampa boliviana, negli scontri tra polizia e manifestanti ci sono stati alcuni feriti, ma non ci sono dati ufficiali in merito. Circa 500 poliziotti hanno attaccato, secondo il racconto di alcuni testimoni, l’accampamento provvisorio messo in piedi dai manifestanti che stavano per riprendere la marcia. Rolando Villena, difensore civico boliviano, ha criticato l’operazione avvenuta con un uso eccessivo della forza: “Ci sono stati bambini feriti e madri disperse. Questo non è l’aspetto che la democrazia dovrebbe avere”.
Due giorni fa era stato il ministro degli esteri boliviano, David Choquehuanca a cercare un incontro con i manifestanti. Choquehuanca, però, era stato brevemente “costretto” a fare un tratto di strada con i manifestanti e poi rapidamente rilasciato. “Vogliono risolvere la cosa con il dialogo”, aveva detto il ministro dopo aver lasciato il corteo. La strada, però, è già in costruzione e il governo Morales ha deciso di giocare un’altra carta per disinnescare una protesta imbarazzante. “Chiederemo ai cittadini del dipartimento di Cochabamba e del Beni che cosa ne pensano del progetto – ha detto domenica il presidente – Se diranno di sì, allora studieremo il miglior percorso possibile e con il minor impatto ambientale”. Il referendum, però, è un’arma a doppio taglio. Se da un lato, infatti, Morales può essere relativamente sicuro di vincere, soprattutto perché il dipartimento di Cochabamba – più favorevole al progetto e più filogovernativo – è molto più popoloso di quello del Beni, dall’altro la campagna referendaria farà emergere le divisioni ormai profonde tra il governo e una parte consistente dei movimenti indigeni, specialmente quelli che contestano a Morales di avere più a cuore gli interessi degli aymara e dei quechua, i due popoli principali dell’Altopiano, a cui il presidente appartiene e da cui trae la sua più importante base di consenso.
Il progetto contestato dai guaranì e dagli altri popoli dell’Amazzonia boliviana (l’oriente del paese, quasi un terzo della superficie totale) è quello del ramo boliviano del futuro collegamento autostradale che da Manaus, in Brasile, dovrebbe arrivare fino a Manta, porto ecuadoriano sul Pacifico. Un pezzo del tratto boliviano, quello che va dalla città di Cochabamba, alle pendici dell’altopiano andino, fino alla città di San Ignacio de Moxos, in Amazzonia, dovrebbe attraversare l’area del Territorio indigeno e parco naturale Isiboro Sécure (Tipnis), una zona dove vivono 16 comunità indigene, per un totale di circa 50 mila persone. Da queste comunità è partita la protesta contro il governo, accusato di perseguire una politica favorevole alle industrie minerarie e alle grandi opere che contrasta con i principi di difesa della Pachamama (la Madre terra) sanciti anche nella nuova costituzione boliviana, approvata con un referendum promosso dal governo a febbraio del 2009. L’intero progetto, peraltro, viene finanziato dal Brasile e realizzato da un’azienda brasiliana.
La protesta ha assunto la forma di una marcia pacifica, partita poco dopo metà agosto dalla città di Trinidad, capoluogo del dipartimento del Beni (nord est della Bolivia) e che avrebbe dovuto concludersi nella capitale La Paz,
Due giorni fa era stato il ministro degli esteri boliviano, David Choquehuanca a cercare un incontro con i manifestanti. Choquehuanca, però, era stato brevemente “costretto” a fare un tratto di strada con i manifestanti e poi rapidamente rilasciato. “Vogliono risolvere la cosa con il dialogo”, aveva detto il ministro dopo aver lasciato il corteo. La strada, però, è già in costruzione e il governo Morales ha deciso di giocare un’altra carta per disinnescare una protesta imbarazzante. “Chiederemo ai cittadini del dipartimento di Cochabamba e del Beni che cosa ne pensano del progetto – ha detto domenica il presidente – Se diranno di sì, allora studieremo il miglior percorso possibile e con il minor impatto ambientale”. Il referendum, però, è un’arma a doppio taglio. Se da un lato, infatti, Morales può essere relativamente sicuro di vincere, soprattutto perché il dipartimento di Cochabamba – più favorevole al progetto e più filogovernativo – è molto più popoloso di quello del Beni, dall’altro la campagna referendaria farà emergere le divisioni ormai profonde tra il governo e una parte consistente dei movimenti indigeni, specialmente quelli che contestano a Morales di avere più a cuore gli interessi degli aymara e dei quechua, i due popoli principali dell’Altopiano, a cui il presidente appartiene e da cui trae la sua più importante base di consenso.
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