Il tempo delle vacanze trova riparo sotto i tetti più disparati. Anche quelli di bungalow, tende, cottage e resort sulla spiaggia che ci sembrano comuni appartengono a tipologie tradizionali le cui origini si perdono nella storia dell'uomo e della sua scaltra attitudine al riparo.
L'architettura di questi edifici non ha padri titolati ma frutto del progetto di un singolo o di una comunità che studiando il vento, valutando l'intensità delle intemperie, considerando la stabilità del terreno e l'archivio di materiali a disposizione ha costruito case, chiese, torri, granai.
In vacanza o per turismo spesso si sceglie di abitare un trullo, un kuren balinese o una minka giapponese, tutti esempi di un catalogo di costruzioni spontanee dove il contesto geografico ne ha modulato forme, vocazioni e tecniche.
Esistono delle costanti che hanno profondamente influenzato l'architettura e che dopo essere state dimenticate oggi tornano a essere dei capi saldi della sostenibilità. Eppure vista la vivacità che non ha conosciuto decadenze, un aspetto che non va trascurato è quanto questi paradigmi siano saldamente scolpiti nell'immaginario collettivo come sinonimo di autenticità, tradizione, esotismo e persino relax. Mentre per chi si occupa di architettura rappresentano uno stereotipo, molti esempi di design vernacolare, spesso imprigionati in boule de neige dal sapore kitsch, si possono ritrovare nella guida Architettura senza architetti che John May e Anthony Reid hanno compilato per Rizzoli.
Un cottage sulle rive di un lago svedese è fresco come un trullo pugliese, il legno o la pietra, come conduttori di calore, c'insegnano qualcosa sulla vita e sulle tradizioni dei popoli indigeni – oggi vacanzieri – riflettendo come in uno specchio le nostre esperienze: ripercorriamo le origini degli edifici contemporanei e capiamo cosa ci manca perché tornino a rispondere alle nostre fondamentali necessità. Le macchine per vivere che hanno a lungo ispirato gli urbanisti erano soluzioni abitative definitive e razionali, il mito del "a misura d'uomo" interpretava la tradizione come disagio, convenzione e vincolo e non più per la sua capacità di stimolare immaginazione e creazione.
In Africa, in Asia e America Latina l'architettura spontanea è ancora viva, abitata e costruita, integrata all'immagine da cartolina esotica o postmoderna, una risposta alla contemporanea urbanizzazione in insediamenti abusivi dove si costruiscono case con rifiuti come le favelas brasiliane o templi con rottami, come il Wat Pa Maha Chedi Kaew in Thailandia, composto da un milione di bottiglie di birra raccolte dai monaci buddisti.
Abitudini e miti, tradizioni e credenze s'impastano con terra, mattoni, pietra, legno, bambù, palma e giunco per un riparo dal tetto in zolle d'erba, tegole d'argilla, scandole di legno o lamiera ondulata.
Case per turisti, solo momentaneamente; case per nomadi, solo apparentemente. Non c'è poi troppa differenza tra il nomadismo raccontato da Paul Oliver nel tomo, Encyclopaedia of Vernacular Architecture (disponibile solo in biblioteca) da quello di un trentenne precario che vive in una metropoli, appeso ad uno Smart phone, in subaffitto e sotto scacco per un contratto in scadenza. I fari ancora in attività sono spesso oggetto di concorsi internazionali per affidarne la custodia a chi non ha paura della solitudine. Le risposte a queste chiamate riscuotono un eco mediatico notevole e non si stenta a trovare candidati pronti ad abitare e lavorare in queste strutture com'è successo nei Paesi Bassi per ripopolare gli oltre mille mulini a vento originali, risalgono agli anni Venti. La conservazione di un bene si sposa con la volontà di tornare a vivere secondo ritmi e logiche meno sincopate. Simile destino lo sta vivendo la minka giapponese, un tempo casa popolare, conosciuta in occidente per le pitture di Junkichi e i film di Kurosawa. Oggi sono edifici storici protetti dal Governo e sopravvivono grazie ad attenti conservatori come quelli dei villaggi di Shirakawa-go e Gokayama, ora patrimonio Unesco, con tetti di paglia a forte spiovente nello stile gassho-zukuri, "costruzione dalla mano che prega". Diversi i casi di Mongolia e Indonesia dove le architetture del popolo, oggi urbanizzato in condizioni non sempre ottimali, sono diventate occasioni di fuga per turisti in cerca d'emozioni indigene, pronti a rinunciare ai confort di un hotel per intercettare lo spirito del luogo. Dormire in una ger mongola riparo dei pastori della steppa non deve essere così confortevole anche se il rivestimento in legno e feltro di questa tenda simile alla yurt turca pare garantisca protezione e calore durante gli inverni a -30°C. A Bali invece il kuren è simile a un minuscolo villaggio recintato. Le abitazioni sopraelevate su una piattaforma e dotate di grandi tetti in paglia di riso e foglie di cocco sostenuti da pali in legno ricreano un ecosistema autonomo con tempio domestico, padiglione cerimoniale, padiglione degli ospiti, granaio, dormitorio e cucina. Questo sistema primitivo è stato in molti casi trasformato in una suite lussuosa a più ambienti.
Col freddo e col caldo anche il Continente nord americano ha consegnato all'architettura vernacolare esempi ancora longevi per funzionalità e potere romantico. Le tende teepee degli indiani delle pianure, i grandi fienili del Michigan e le cracker house immortalate da Hopper illustrano i depliant. Altra cosa tra il Canada settentrionale e la Groenlandia danese dove vivono circa 150.000 inuit che pur abitando in container o case di nuove generazione continuano a insegnare ai loro figli la costruzione a spirale con pareti curve dell'igloo. I blocchi sovrapposti terminano in un blocco a cuneo che completa la struttura a cupola. Il segreto sta nel coprire di neve fresca la costruzione, strofinandola. I più bravi sono ammessi alla costruzione dei karigi, dal diametro più grande per cerimonie e feste.
Il sole 24 ore, 21 agosto 2011
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