La lunga marcia dell'archistar dal committente-re al consenso
Franco La Cecla
Cosa distingue una buona architettura da una cattiva, un contributo prezioso allo spazio pubblico di una città da un intruso con pretese monumentali? È difficile dirlo in generale. Si cita il caso della Tour Eiffel, aborrita alla sua costruzione dai parigini, ma poi divenuta simbolo collettivo, un po' quello che è successo con il Centre Pompidou molti anni dopo.
Chi cita questi casi lo fa per difendere l'arbitrarietà dell'architettura, l´essere in fin dei conti solo una questione di conflitto tra il genio dell´artista e la poca lungimiranza delle masse. I due casi però raccontano il contrario, e cioè che soltanto quelle opere che i cittadini riescono ad assimilare nel proprio mondo conscio e inconscio, a cui riescono ad attribuire un forte significato condiviso, hanno fortuna. L'idea che il genio architettonico debba sempre essere in conflitto con il sentire comune è una idea recente e piuttosto balzana.
Risente della crisi generale dell'arte e dell'architettura che a più riprese ha segnato gli ultimi cento e più anni. Prima di allora gli artisti e gli architetti sapevano bene di avere un controllo ben preciso da parte dei committenti, fossero essi regnanti, dittatori, principi o ricchi capitalisti americani. Nel periodo tra le due guerre gli architetti e gli artisti si sono sentiti impegnati come avanguardie della società, al servizio del cambiamento e della modernizzazione. Come tali spesso erano più al servizio di ideologie che al servizio dei cittadini. Quando le ideologie sono finite, negli ultimi decenni del Novecento, gli architetti hanno seguito gli artisti nel distacco dalla realtà sociale, nell'idea di essere non più avanguardia, ma semplicemente genio sregolato, e allo stesso tempo trend-seekers, cioè non professionisti al servizio della società, ma élite mediatica, produttori di quella cosa di cui oggi è fatto il grande mercato della moda e delle tendenze.
Il problema è che le opere degli architetti non rimangono chiuse nelle gallerie e nei musei, ma diventano luoghi, parte del contesto che crea il paesaggio quotidiano dei cittadini. E i cittadini giudicano, condannano o (a volte) accettano le architetture che vengono loro imposte da solerti amministratori in cerca di glamour mediatico. Le archistar, per quanto continuino a fare finta di essere artisti ingiudicabili (mai dire loro che al massimo sono stilisti di moda, ma questi sono più umili, più attenti allo streetstyle), devono accettare che è il pubblico che usa, fa e consuma una città ad essere il primo giudice.
Gli amministratori, i politici spesso sono complici di questo atteggiamento. Allora, se un sindaco vuole smontare una architettura lo faccia, ma stia attento che a Roma ci sono molti altri monumenti che la gente ancora non sopporta. Vorrà egli smontare anche la macchina da scrivere nazionale, alias l'Altare della Patria? E è davvero affar suo o non sarebbe il caso che almeno lui che è un eletto dal popolo, ascolti i suoi cittadini?
Franco La Cecla
Cosa distingue una buona architettura da una cattiva, un contributo prezioso allo spazio pubblico di una città da un intruso con pretese monumentali? È difficile dirlo in generale. Si cita il caso della Tour Eiffel, aborrita alla sua costruzione dai parigini, ma poi divenuta simbolo collettivo, un po' quello che è successo con il Centre Pompidou molti anni dopo.
Chi cita questi casi lo fa per difendere l'arbitrarietà dell'architettura, l´essere in fin dei conti solo una questione di conflitto tra il genio dell´artista e la poca lungimiranza delle masse. I due casi però raccontano il contrario, e cioè che soltanto quelle opere che i cittadini riescono ad assimilare nel proprio mondo conscio e inconscio, a cui riescono ad attribuire un forte significato condiviso, hanno fortuna. L'idea che il genio architettonico debba sempre essere in conflitto con il sentire comune è una idea recente e piuttosto balzana.
Risente della crisi generale dell'arte e dell'architettura che a più riprese ha segnato gli ultimi cento e più anni. Prima di allora gli artisti e gli architetti sapevano bene di avere un controllo ben preciso da parte dei committenti, fossero essi regnanti, dittatori, principi o ricchi capitalisti americani. Nel periodo tra le due guerre gli architetti e gli artisti si sono sentiti impegnati come avanguardie della società, al servizio del cambiamento e della modernizzazione. Come tali spesso erano più al servizio di ideologie che al servizio dei cittadini. Quando le ideologie sono finite, negli ultimi decenni del Novecento, gli architetti hanno seguito gli artisti nel distacco dalla realtà sociale, nell'idea di essere non più avanguardia, ma semplicemente genio sregolato, e allo stesso tempo trend-seekers, cioè non professionisti al servizio della società, ma élite mediatica, produttori di quella cosa di cui oggi è fatto il grande mercato della moda e delle tendenze.
Il problema è che le opere degli architetti non rimangono chiuse nelle gallerie e nei musei, ma diventano luoghi, parte del contesto che crea il paesaggio quotidiano dei cittadini. E i cittadini giudicano, condannano o (a volte) accettano le architetture che vengono loro imposte da solerti amministratori in cerca di glamour mediatico. Le archistar, per quanto continuino a fare finta di essere artisti ingiudicabili (mai dire loro che al massimo sono stilisti di moda, ma questi sono più umili, più attenti allo streetstyle), devono accettare che è il pubblico che usa, fa e consuma una città ad essere il primo giudice.
Gli amministratori, i politici spesso sono complici di questo atteggiamento. Allora, se un sindaco vuole smontare una architettura lo faccia, ma stia attento che a Roma ci sono molti altri monumenti che la gente ancora non sopporta. Vorrà egli smontare anche la macchina da scrivere nazionale, alias l'Altare della Patria? E è davvero affar suo o non sarebbe il caso che almeno lui che è un eletto dal popolo, ascolti i suoi cittadini?
La Repubblica, 11 maggio 2008
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