BELFAST - La voce di Séanna Walsh non ha alcun tentennamento. "Anche se lo avessi fatto, non lo direi qui, adesso, davanti a un registratore. Perché non sono mai stato inquisito per un fatto del genere". Nessuna inflessione, nessun cambio nel suo timbro. "Sono stato arrestato per possesso di armi, per aver pianificato un attentato dinamitardo all'esercito britannico". Neanche una scossa. "Ma non sono mai stato condannato per omicidio". Solo un rapido, inconsulto, battito di ciglia cambia la sua posizione sulla sedia, al centro della sala nuda. La cadenza delle sue parole è assecondata solo dal picchiettio costante della pioggia di luglio sulle finestre dell'associazione Tar Anall, che si occupa della reinserzione degli exdetenuti dell'IRA. A pochi metri dall'edificio di mattoni rossi e bianchi, poche auto e ancor più scarsi pedoni percorrono Falls Street, il viale che porta dall'emblematico quartiere cattolico al centro di Belfast, dove fervono i preparativi dell'annuale Marcia Orange.
Celebrazioni. Tutti gli anni, da più di tre secoli, ogni 12 luglio gli affiliati alle logge massoniche del Regno Unito percorrono le città nordirlandesi per celebrare la vittoria nel 1690 del re protestante William III d'Orange sul cattolico James II. Negli ultimi anni, l'evento mette sempre più a dura prova l'ancor fragile convivenza sancita con gli accordi di pace del Venerdì Santo, firmati nell'aprile del 1998. Un patto che cercava di porre fine a decenni di violenza tra unionisti leali alla corona britannica e repubblicani a favore della riunificazione politica d'Irlanda, un conflitto in cui, solo a partire dalla drammatica Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, avevano perso la vita almeno 3.500 persone. Tuttavia, quindici anni dopo la storica firma tra il governo britannico e quello irlandese, l'eredità di questa guerra continua a incidere il volto di Belfast. Almeno 99 muri - battezzati non senza involontario sarcasmo peacewalls - continuano a separare i quartieri cattolici e quelli protestanti e rimangono testimoni privilegiati della sfiducia che ancora attanaglia la città.
"La guerra non siamo andati a cercarla. Non abbiamo invaso un altro paese. La guerra è entrata nelle nostre strade quando l'esercio britannico è atterrato qui e ha portato con sé la paura e le armi". La voce bassa di Séanna Walsh riempie la grigia sala con i ricordi della sua militanza tra le fila dell'IRA per più di tre decenni. Nel 1973 fu arrestato per la prima volta, a soli 16 anni, mentre rapinava con altri compagni una banca. Sentenza, cinque anni. Nella famigerata prigione di Long Kesh, dove gli fu riconosciuto lo status di prigioniero politico, diventò amico di Bobby Sands. Walsh - che alcuni anni fa ha deciso di utilizzare anche il suo cognome gaelico Breathnach - fu liberato a maggio del 1976, ma tre mesi dopo fu arrestato nuovamente perché in possesso di un fucile. Sentenza, dieci anni. "Sento rimorso per il fatto che degli esseri umani sono stati assassinati e per alcuni amici che non ci sono più. La violenza disumanizza tutto quello che la circonda. È indifferente come si cerchi di giustificarla, non rende le cose più facili", mi spiega Walsh. Ma la sua conclusione è inesorabile. "La guerra è questo: ammazzare persone, ditruggere cose. Fai quello che devi fare e mantieni la speranza che la tua ideologia ti permetta di sopportarlo".
Nel momento in cui arrivò all'H-Blocks, Walsh aderì a tutte le proteste che i detenuti repubblicani organizzavano per recuperare il loro status di prigionieri politici, abolito dal governo britannico nel 1976. Dapprima ci fu la blanket protest, la protesta delle coperte; più tardi, i prigionieri iniziarono la dirty protest: si rifiutavano di lavarsi, radersi o tagliarsi i capelli e tiravano i propri escrementi alle pareti delle celle. Infine nel 1980, davanti all'intransigente opposizione di Margaret Thatcher a intavolare un dialogo, alcuni iniziarono uno sciopero della fame, che finì con la morte di Bobby Sands e di altri 9 attivisti. Séanna recuperò definitivamente la libertà grazie all'amnistia prevista negli accordi del Venerdì Santo del 1998. Aveva quarantadue anni e ne aveva passati la metà in carcere.
"Quando eravamo giovani, eravamo attivisti politici con le armi. Ora continuiamo a essere attivisti politici, ma senza armi. L'obiettivo rimane lo stesso: vogliamo un'Irlanda libera dalle interferenze britanniche", argomenta Walsh, lui che il 28 luglio del 2005 apparse in video per annunciare la fine della lotta armata dell'IRA. In questo modo, si convertì nel primo membro dell'organizzazione dal 1972 a fare un comunicato senza indossare il passamontagna.
Visite guidate. Ora Walsh lavora per il partito repubblicano Sinn Féin ed è responsabile di Coiste na nlarchimí, l'associazione che organizza gli incontri tra gli ex detenuti dell'IRA e quelli delle organizzazioni paramilitari unioniste. Una delle attività più rilevanti di Coiste sono i political tours, le visite guidate ai murales di Belfast. Ed è facile incontrare i gruppi di turisti che in taxi percorrono i luoghi simbolo dei Troubles, come i pub degli attentati più drammatici o la famigerata Corte di Giustizia di Crumlin Road. Tuttavia, l'attrazione più richiesta sono i murales che tappezzano tutta la città. Enormi e colorati, interrompono la regolarità delle villette di mattoni rossi. Si stagliano come un segno d'identità e di rivendicazione, ma soprattutto raccontano la storia martoriata della città. "Ma se si vuole conoscere il lato unionista della storia", consiglia Walsh, "bisogna parlare con Plum".
William Plum Smith sta seduto nella sua auto, proprio davanti a un murales che commemora un militante protestante assasinato dall'IRA. A pochi metri c'è il check-point del quartiere di Shankill. Smith sa che fino a pochi anni fa non si sarebbe mai azzardato ad attraversarlo, perché gli avrebbero sparato. "Durante i Troubles quel cancello era sempre chiuso. Il fatto che ora sia aperto rappresenta un ritorno alla normalità", dice prima di mettere in moto. Smith collabora con l'associazione EPIC, che organizza i tour guidati nel lato protestante della città. Presente tra i fondatori del Red Hand Commando, nel 1972, Smith formava parte dell'organizzazione paramilitare Ulster Volunter Force (UVF), responsabile dell'omicio di centinaia di presunti simpatizzanti dell'IRA, in molte occasioni colpevoli solo di essere cattolici. Incarcerato per anni nella prigione di Long Cash, agli inizi degli anni '90 iniziò a partecipare ai primi negoziati con i repubblicani. "Abbiamo iniziato a lavorare insieme in carcere, perché stavamo nella stessa merda", spiega mentre guida tra le case addobbate con l'Union Jack e le foto della regina Elisabetta. All'improvviso, gira per un viale lunghissimo costeggiato da un muro alto 20 metri e coronato da una barriera metallica. È il Peace Wall, il muro pieno di murales che per vari chilometri divide i quartieri più conflittuali di Belfast. "Le nuove generazioni sono nate quando il muro era già stato costruito, non sanno come c'era prima. È come un mobile di casa", assicura Walsh mentre la pioggia fuori dai finisetrini confonde i colori dell'enorme parete "Probabilmente il muro ce l'abbiamo in testa".
Nessun contatto. Una ricerca dell'università Queen's di Belfast condotta in dodici quartieri della città ha rivelato che il 68% dei giovani tra i 18 e i 25 anni non ha mai avuto una conversazione con un coetaneo dell'altra comunità. "Uno degli ostacoli più difficili da superare per raggiungere una riconciliazione è quello del sistema educativo", spiega il professor Bill Rolston, uno dei più importanti esperti in processi di transizione politica, davanti a una tazza di tè. "Per come funzionano le cose, io potrei andare ad una scuola cattolica a quattro anni, dopo passare ad un'altra scuola cattolica agli undici; a diciotto iscrivermi ad un college diretto da cattolici e infine trovare lavoro come maestro in una scuola cattolica e andare in pensione a sessantacinque anni, senza mai relazionarni con altre persone che con quelle della mia comunità". Rolston, che insegna all'Università dell'Ulster, riconosce che "è come stare in una bolla e questa è la realtà del 90% degli studenti. Che ci siano due sistemi educativi differenziati, uno per protestanti e l'altro per cattolici, è un problema". Tuttavia, Rolston ammette che c'è stato un cambio importante. "In molti sensi l'Irlanda del Nord è un posto irriconoscibile, se paragonato al paese di cinquanta o trenta anni fa. Ricordo che nel 1974 scoppiò una bomba a poche yards da qui, nella zona universitaria, che distrusse tutta la strada. Se avessi visto le foto scattate subito dopo, ti sarebbe sembrato di stare a Sarajevo". Sorbendo un altro sorso di tè, Rolston conclude: "Belfast ora è una città piccola, movimentata, carina e sotto la sua superficie c'è una trasformazione impossibile da immaginare fino a pochi anni fa".
William Smith è arrivato a una zona di Shankill dove si alternano cantieri edili abbandonati e terreni incolti. Su una spianata si alza un enorme pira di legno. Inchiodate alle tavole ondeggiano alcune magliette biancoverdi della squadra di calcio del Celtic e varie bandiere irlandesi. Sono lì pronte per essere bruciate la notte dell'11 luglio, alla viglia della Marcia Orange. "Visto che situazione?", chiede Smith, indicando le migliaia di case vuote". "L'unica, vera divisione è quella economica". Poi gira per alcune strade e ritorna al check-point, per scomparire dietro il cancello che separa i due quartieri.
Cinque secoli di battaglie
1688-1692: I cattolici irlandesi appoggiano il re Giacomo II, mentre i coloni protestanti sostengono Guglielmo III d'Orange, che vince la decisiva battaglia del fiume Boyne (1690).
1795: Nasce l'Ordine Orange, composta da protestanti e pro-britannici, per contrastare gli indipendentisti repubblicani nell'Ulster.
1919-1921: Guerra d'indipendenza irlandese. Le 6 province del nord-est rimangono sotto la corona del Regno Unito, mentre le altre si unificano nello Stato libero d'Irlanda, che nel 1948 diventerà una repubblica e abbandonerà il Commonwealth.
1968-1969: Nasce in Irlanda del Nord il movimento per i diritti civili. Si forma anche la Provisional IRA (PIRA), con l'obiettivo di conseguire l'unificazione dell'Ulster con l'Irlanda attraverso la lotta armata. Pochi anni prima era stato creato l'Ulster Volunteer Force (UVF), un'organizzazione paramilitare unionista e protestante, che sarà responsabile di numerose azioni terroristiche contro i membri dell'IRA e la popolazione cattolica.
30 gennaio 1972: Bloody Sunday: i paracadutisti britannici sparano contro i partecipanti a una marcia contro i diritti civili, nella cittadine di Derry. Inizia una escalation di violenza, che negli anni successivi prenderà il nome di The Troubles.
1976-1981: Manifestazioni di protesta nelle carceri di Long Kesh dei detenuti repubblicani, per recuperare lo status di prigionieri politici. Le proteste più famose saranno la "Blanket protest", in cui i reclusi si rifiutano di indossare le uniformi del carcere e vestono solo con delle coperte, e la "Dirty protest", durante la quale i detenuti decidono di non lavare l'orina e le feci delle proprie celle.
1981: Margareth Tatcher nega la concessione dello status di prigionieri politici. Alcuni detenuti repubblicani iniziano uno sciopero della fame. Dopo 66 giorni di inedia, il 5 maggio muore Bobby Sands, leader della protesta. Altri 9 detenuti moriranno nei giorni successivi.
Luglio 1997: L'IRA dichiara una tregua. Due mesi dopo cominciano i negoziati per mettere fine al conflitto.
10 aprile 1998: Vengono firmati gli accordi di pace tra il governo britannico e quello irlandese, conosciuti come Good Friday Agreement. Proclamata l'amnistia per i detenuti.
15 agosto 1998: Un gruppo chiamato IRA Autentico rivendica l'attentato nel villaggio di Omagh, in Irlanda del Nord, in cui un auto-bomba uccide 29 persone e ne ferisce 220. È l'attentato più grave del conflitto e mette a dura prova gli accordi.
28 giugno 2005: L'IRA dichiara la fine della lotta armata.
Luglio 2012: Alcuni gruppi dissidenti dell'IRA contrari alla pace annunciano che seguiranno gli attacchi alle installazioni britanniche.
Mostar, il ragazzo con il bazooka
MOSTAR - Un colpo. Poi un altro. Un'altro ancora. Infine, un'enorme nube di acqua che si staglia nell'azzurro del mattino del 9 novembre del 1993. Subito dopo, dalla collina che domina la città di Mostar, cadeva il silenzio. Esattamente dallo stesso punto in cui ora si alza una croce di 33 metri, l'artiglieria delle forze armate croate (HVO), guidate dal generale Slobodan Praljak, compiva la sua missione: distruggere lo Stari Most, il ponte vecchio, simbolo della città dal 1566. Quel mattino, insieme alle pietre intagliate dagli artigiani ottomani, finivano nelle acque del fiume Neretva secoli di komšiluk. Il cordiale rapporto di vicinanza tra persone di diversa tradizione e religione, che aveva caratterizzato Mostar più di altre città jugoslave, era portato via dalla corrente, verso un futuro di violenza e incomprensione mutua.
Quella stessa mattina, Orhan Maslo si trovava a poche centinaia di metri da lì, nella base delle forze speciali dell'esercito bosniaco-musulmano (ARBiH). Nella sua unità tutti lo chiamavano 'Ohà - ontano, il resistente albero dei boschi dell'Erzegovina - , il soprannome che suo nonno gli aveva dato fin da piccolo per la sua incredibile altezza. Oha si occupava di distruggere con un bazooka gli obiettivi militari croati al di là del boulevard che separava la East bank musulmana dalla West bank croata. Lui si divertiva come se si trattasse di un gioco e i suoi superiori lodavano la sua mira e efficacia. Per questo, a nessuno importava che avesse quindici anni e che da un anno e mezzo combattesse sulla prima linea della guerra europea più cruenta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
"Non piansi per il ponte. Le lacrime, semplicemente, non servivano", spiega Oha davanti ad una birra Sarajevska, seduto al bar del centro culturale "Abraševi", a due passi dal viale Šantia, lo stesso da dove i cecchini croati lo prendevano di mira e che oggi continua a rappresentare lo spartiacque tra le due comunità. "Un paio di mesi prima, un mio amico aveva perso suo fratello di undici anni. Una granata gli aveva amputato una gamba. Lo portarono all'ospedale, ma fu inutile. Il dottore gli consegnò la gamba e lui non pianse. Ma quando distrussero il ponte, sì che pianse".
Stallo istituzionale. Gli accordi di Dayton, firmati nel novembre del 1995, hanno creato una situazione di stallo istituzionale e politico che che complica la possibilità di ricostruire i legami rotti. L'accordo prevedeva la creazione di due entità: la Federazione di Bosnia-Herzegovina, composta maggioritariamente da bosgnacchi e croati e che occupa il 51% del territorio nazionale, e la Repubblica Srpska, a maggioranza serba. Le due entità hanno grandi autonomie amministrative, ma all'interno della cornice statale della Bosnia-Herzegovina. La presidenza è collegiale e la compongono un serbo, un croato e un bosgnacco, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente. Inoltre, le due entità hanno un proprio parlamento e tutto il territorio, grande due volte la Sicilia, è diviso in cantoni, che hanno una legislazione specifica per ogni gruppo etnico che lo integra.
Questa complessa divisione amministrativa, frutto dei negoziati che permisero di firmare la pace, rende difficile ogni possibilità di intesa, a causa dei veti incrociati dei rappresentanti politici di ogni comunità. "Nella memoria dei cittadini è ancora fresco il ricordo della guerra, perciò le comunità votano per chi dice di salvaguardare 'la propria casa'", afferma Vernes Voloder, coordinatore del centro internazionale di studi per il dialogo NDC Mostar. "I tre partiti nazionalisti infondono timori e manipolano i cittadini bosniaci con la strategia del balance of fear e questo crostallizza la divisione".
Doppi servizi. Una divisione che a Mostar, a maggioranza croata, è una realtà: tutti i servizi comunali, dalle poste all'educazione, dall'erogazione d'acqua al servizio di nettezza urbana, sono doppi. Alcuni leader politici avrebbero pertanto ipotizzato di creare due municipalità - Mostar Est e Mostar Ovest, separate dal viale Šanti? a, la vecchia linea di fuoco, dove ora Oha sta rollando l'ennesima sigaretta della notte. "I politici ci hanno messo un tarlo in testa, in maniera che ognuno di noi sa a che gruppo deve appartenere e quali sono le differenze con l'altro. Alla fine di ogni giornata, ognuno torna nella zona della città di propria appartenenza, secondo il criterio della divisione etnica".
Di fatto, nella parte est della città risiede la maggior parte della popolazione musulmana, mentre in quella ovest vive quella croata, da cui, secondo un recente studio, quasi l'80% dei giovani non si sono mai mossi per andare dall'altra parte. Nel mezzo, sotto la mezzaluna di pietra dello Stari Most - ricostruito e riaperto nel luglio del 2004 e dichiarato Patromio dell'Umanità Unesco un anno dopo - , scorrono veloci le acque verdi del Neretva. Tra le sue correnti si scompongono le linee verticali dei minareti, guardiani bianchi della città vecchia ricostruta. Lì, nel bazaar Kijundžiluk, torme di turisti si accalcano nei negozi di souvenir per portarsi via a prezzi di saldo un pezzo di guerra: tre euro per una penna fatta con i bossoli, fino a dodici per un piccolo aereo fermacarte. Tuttavia, pochi isolati più in là, i fori dei proiettili solcano ancora le pareti degli edifici; alcuni, come quello della banca Privedna, troneggiano ancora con le stimmate di guerra, vittima e allo stesso tempo ricattatore delle diverse anime della città.
Una band per dimenticare. Dallo scenario montato in una sala del centro culturale arrivano gli accordi del soundcheck di un concerto rock. Oha intanto ricorda como la decisione più giusta che abbia preso durante la guerra sia stata quella di lasciare l'esercito, un mese dopo la distruzione del ponte. "Come soldato non mi proteggevo. Mi facevo di tutto. Arrivati a un certo punto, non m'importava più contro chi lottavamo o chi uccidevamo. Sono sicuro che se avessi continuato a combattere, non avrei visto la fine del 1994." Oha si rifugiò nello scantinato di un edificio, che divise con una ventina di adolescenti fino alla fine della guerra. Lì sotto, con alcuni bidoni di vernice e altre cianfrusaglie, imparò a suonare le percussioni. Il percussionista sudafricano Eugene Skeef lo sentì esibirsi nell'orfanotrofio dove era stato trasferito alla fine della guerra e scommise sul suo talento. Durante gli anni successivi, Oha iniziò a partecipare a tour internazionali con vari artisti e ed entrò a far parte della band Dubioza Kolektive, destinata a convertirsi in un punto di riferimento della musica alternativa balcanica. Nel 2003, con un amico, fondò il Mostar Blues Festival, il primo evento che riuniva le due parti della città, en el 2012 iniziò a dirigere la Mostar Rock School, una scuola di musica in cui adolescenti delle diverse comunità di Mostar suonano insieme, sotto la supervisione di musicisti professionisti. "La música è la miglior maniera per avvicinare le persone. Una volta catturato, non ti importa più se la persona con cui suoni viene da Est o da Ovest", afferma orgoglioso. In solo due anni di attività, nella scuola, alloggiata nelle sale del Pavarotti Musik Center, si sono create una ventina di band, che si esibiscono in tutti i Balcani.
Jimi Hendrix fuma da un poster vicino alla finestra. Dalla strada, una tiepida luce illumina un posacenere già pieno di cicche e accende le pareti gialle e arancioni del Pavarotti Musik Center. Al bancone della caffetteria, un rocker sulla quarantina aspira una boccata da una sigaretta, guardato a vista da Mick Jagger , Kurt Cobain e Bob Marley. Appese più in là ci sono, in bianco e nero, anche le foto di Maria Callas e Luciano Pavarotti. Il tenore modenese è venuto una sola volta qui, nel 1997. Dovettero cambiare l'elicottero che lo avrebbe portato a Mostar da Split, perché quello previsto era troppo piccolo. Ci rimase un solo giorno, ma molti ricordano con affetto il suo sguardo pieno d'energia. Una bambina gira intorno con i pattini, mentre alcuni ragazzi entrano con le custodie della chitarra sulle spalle e si dirigno alle sale prove. "Noi non abbiamo cominciato la guerra, quindi vogliamo tornare ad essere uniti come prima", grida nella sala di registrazione Amar Santjc, il diciassettenne chitarrista del gruppo Kuro Sawa. "È una cosa grandiosa che ci abbiano mischiati, gente di diverse origini e religioni", aggiunge Manuela Zulj, la giovane cantante degli Zurks. Un po' impacciati, chiedono di poter riprendere le prove e vanno via.
Rinconciliazione. "Credo che la chiave per la riconciliazione siano progetti come questi", ribadisce Oha, mentre la sua compagna lo avvisa che il concerto sta per iniziare. "Bisogna dare alle nuove generazioni la possibilità di avvicinarsi, di conoscersi. Affinché capiscano che l'unica differenza che li separa è il loro nome". Per questo, ha chiamato sua figlia Luna. "Ero stanco che tutti i nomi appartenessero a religioni, etnie, nazioni", mi dice mentre si muove verso lo scenario del concerto. "Così abbiamo scelto un nome che non esiste su questo pianeta".
La morte di Tito e il referendum tradito
1557-1566: Il sultano ottomano Solimano I il Magnifico ordina la costruzione del ponte di Mostar.
1945: Nasce la Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia, che nel 1964 diventerà Socialista. Il Maresciallo Josip Broz "Tito" ne assume la guida e diventa il leader dei paesi non-allineati. .
1980: Muore Tito.
1987: Slobodan Miloševi assume la presidenza della Jugoslavia.
25 giugno 1991: Slovenia e Croazia dichiarano l'indipendenza da Belgrado. È l'inizio della guerra dei Balcani, che in quattro anni causerà più di 200 mila vittime.
29 febbraio-1 marzo 1992: La Bosnia-Herzegovina indice un referendum sulla propria indipendenza. Il 64% dei cittadini vota a favore, mentre i serbi di Bosnia, liderati da Radovan Karadži?, non riconoscono le consultazioni.
5 aprile 1992: Inizia il lunghissimo assedio di Sarajevo. Fino al 29 giugno del 1996 le forze dell'autoproclamata Repubblica Srpska e le truppe dell'Esercito Jugoslavo bombarderanno senza sosta la città. I cecchini prendono di mira la popolazione civile.
19 giugno 1992: Comincia la guerra tra truppe croate e musulmane in Bosnia-Herzegovina.
9 novembre 1993: L'artiglieria croata distrugge il ponte di Mostar.
21 novembre 1995: Slobodan Miloševi, presidente della Serbia e rappresentante dei serbo-bosniaci, Franjo Tu man, presidente della Croazia, e Alija Izetbegovi, presidente della Bosnia-Erzegovina, firmano gli accordi di pace nella base militare statunitense di Dayton.
23 luglio 2004: inaugurazione delle Stari Most ricostruito.
Mitrovica, la generazione del ponte
MITROVICA- L'Ibar è un fiume carico di storie e di legende. Nasce dalle montagne del Montenegro e, prima di arrivare in Serbia, passa per il Kosovo, dove si fa imbrattare dai canali di scolo di Mitrovica che sgorgano da entrambe le rive della città. Su quella nord, appoggiato su una balaustra di cemento del ponte principale, Todor Milovi? fuma una sigaretta. Sul dorso del suo giubbotto nero campeggia una croce celtica bianca, rossa e blu, il simbolo dell'aviazione militare serba, mentre sul braccio sinistro risalta l'aquila bicefala della bandiera del paese. Come il sabato pomeriggio, Todor è venuto a guardare i pescatori che aspettano che qualcosa si attacchi alla loro lenza. Quando mi avvicino, mi offre una sigaretta. "Prendila. Sono Winston", mi dice e immediatamente dopo mi sfida: "Sai perché fumo queste? Perché non sono americane, le fanno qui". Dietro la mano protesa, Todor mi scruta con sguardo torvo, quello di chi vuol dimostrare esperienza e malizia. Ma l'ombra di acne sul suo volto tradisce i suoi vent'anni. Quando ha attraversato il fiume l'ultima volta per andare dall'altra parte della città, Todor Milovi? ne aveva sette. Sua madre lavorava nell'edificio della YUGO Bank, proprio subito dopo il ponte principale. Era l'inverno del 1999 e di lì a pochi mesi l'aviazione della NATO avrebbe cominciato a bombardare la Serbia, nell'ultimo, drammatico atto della tragedia delle guerre balcaniche che hanno insaguinato l'ultimo decennio del XX secolo. "Il Kosovo-Metohija è una provincia serba. Questa è la culla della nostra patria", mi ribadisce Todor con piglio militare. "È sempre stato così e lo sarà anche in futuro".
La fuga. Abedin Bala ha 25 anni e da qualche mese lavora come cameriere del ristorante Ura (che in albanese vuol dire 'ponte'), un locale di specialità italiane che si trova proprio sulla sponda meridionale del fiume, lì dove comincia, o finisce, la parte albanese della città. Sebbene lavori qui solo da poco tempo, per Abedin vivere sul ponte è la cosa peggiore che ci possa essere. Nel 1999 lui e la sua famiglia furono costretti dalle truppe serbe ad abbandonare la propria casa e rifugiarsi in Albania. Nel tragitto tra le montagne ha visto gente morire di fame e in più occasioni si è salvato dalla morte per mano dei militari. Ora Abedin non attraversa il ponte perché ha paura. "Non è difficile passare. È che non sai quello che ti può succedere", mi spiega con gesti nervosi. "L'ultima volta ci sono stato alcuni mesi fa con amico, per curiosità. Cercavamo di non parlare tra di noi in albanese, di non guardare intorno, di muoverci come loro. Ma poi siamo tornati in fretta". Abedin dice di non provare risentimento verso tutti i serbi, ma di sentire odio e rabbia verso quelli di Mitrovica Nord che non riconoscono la Repubblica del Kosovo. E mi giura che è pronto ad imbracciare le armi per difendere l'indipendenza della sua patria.
Dallo scoppio della guerra, nel 1999, il fiume rappresenta il muro quasi invalicabile che separa due comunità, due lingue, due religioni e perfino due nomi per la stessa città: Mitrovicë per i circa 90 mila albanesi che vivono a sud dell'Ibar, Kosovska Mitrovica per i 20 mila serbi che occupano la parte settentrionale di questa città mineraria, che ha vissuto la sua epoca di splendore durante il regime di Tito e non l'ha più recuperato. Nel mezzo, il ponte, cha a partire dalla dichiarazione unilaterale d'indipendenza dichiarata da Prishtina, il 17 febbraio 2008, non ha fatto altro che allonatanare le due rive. Un ponte che è diventato una scuola di odio e incomprensione per gli adolescenti e i giovani come Abedin e Todor, venuti su con il libro del risentimento sotto il braccio. Si tratta della generazione che ha visto la guerra da bambino e ha sempre avuto negli occhi l'immagine dell'altro come un nemico. Ora quell'asfalto e quei tralicci rappresentano per loro il confine del proprio mondo e il limite dove sfogare rabbia, frustrazione e violenza contro gli altri. Sono la generazione del ponte.
Violenza. "L'unico mondo che hanno visto negli ultimi 12 anni è quello della violenza", afferma Tatjana Lazarevi?, analista del nord del Kosovo per il portale Osservatorio Balcani e Caucaso. "Sono rimasti isolati in uno spazio piccolissimo e credono che sia normale crescere in un 1,5 quadrato. Qui non hanno nemmeno gli impianti sportivi, che sono nella parte meridionale della città". Di fatto, nella parte sud di Mitrovica ci sono le attrezzature per praticare sport, ma manca tutto il resto, a cominciare dal lavoro. Il Kosovo ha un tasso di disoccupazione del 45% e a soffrirne di più sono i giovani fino ai 25 anni, che costituiscono il 70% dell'intera popolazione albanokosovara. Per comprovarlo, è sufficiente camminare lungo il corso principale della città dove, a qualsiasi ora di qualsiasi giorno, decine e decine di ragazzi sono seduti nei bar, intenti a sorbire innumeravoli tazzine di caffè, il vero lubrificante sociale dei Balcani.
Aferdyta Syla, direttrice della ONG Community Bulding Mitrovica (CBM), è convinta che la maniera più facile per ridurre le tensioni tra le due comunità sia proprio migliorare le condizioni economiche. "Una volta che tu non hai bisogno di preoccuparti del tuo lavoro, anche gli altri problemi sembrano minori", spiega. Il timore di Syla, che lavora per l'organizzazione da più di 10 anni, è che si possa ripetere l'escalation di violenza del marzo 2004, quando la diffusione della notizia che tre bambini albanesi erano annegati nell'Ibar a causa di alcuni serbi scatenò una rivolta che si estese a tutto il paese. In pochi giorni 7 villaggi serbi furono rasi al suolo, 28 civili furono ammazzati e 600 feriti, 30 chiese ortodosse - molte di loro patrimonio Unesco dell'umanità - furono bruciate. Giorni dopo, si apprese che la notizia era falsa e che non vi era alcuna responsabilità da parte dei serbi. Ma era troppo tardi: il fiume aveva trascinato via la vita dei bambini e le ultime speranze di convivenza pacifica.
I militari. Anche Francesco Carrile, comandante della brigata di Carabinieri della missione KFOR della NATO ammette che "senza la presenza militare internazionale basterebbe una minima miccia per riaccendere il fuoco degli scontri tra le comunità". Dal 1999, la comunità internazionale è presente nel paese con varie missioni: oltre ai 5 mila militari di 23 paesi diversi della KFOR, ci sono migliaia di funzionari e addetti alla sicurezza della missione EU-LEX della UE, quelli dell'ONU (UNMIK) e quelli dell'OCSE. E sono state tutte rinnovate per altri anni, al fine di garantire il rispetto degli Accordi di Bruxelles firmati nel 22 maggio del 2013.
L'accordo - promosso dalla UE e posto come condizione principale per l'avvio dei negoziati sull'ingresso nell'Unione dei due paesi - di fatto comporta il riconoscimento del Kosovo da Belgrado e un tentativo di normalizzare le relazioni tra i due paesi. Resta da vedere in che modo le autorità serbe potranno smantellare le strutture parallele - in materia di istruzione, salute e sicurezza - che hanno mantenuto questi anni a Mitrovica e nella parte settentrionale del Kosovo e se effettivamente elimineranno i numerosi vantaggi economici con cui Belgrado ha convinto i circa 25 mila serbi che ancora risiedono in questa enclave a non lasciare le loro case. A dimostrare inoltre come il sentiero delle buone intenzioni ufficiali sia minato dai tanti problemi sono state le ultime elezioni amministrative della citt. Il 3 novembre scorso, infatti, l'elezione dei sindaci del Kosovo era la cartina di tornasole della comunità internazionale sulla reale tenuta degli accordi. Ma mentre nei comuni a maggioranza serba del Kosovo centrale l'affluenza ha superato il 40%, in quelli a nord dell'Ibar pochi elettori si sono recati alle urne e spesso lo hanno fatto sfidando lo sguardo minaccioso di chi propugnava il boicottaggio totale della tornata elettorale.
A Mitrovica Nord, inoltre, un gruppo di persone incappucciate è entrato in uno dei seggi e ha portato via i registri e le urne con i voti. Sebbene l'azione - probabilmente eseguita da gruppi serbi radicali, ma dal mandante ancora incerto - abbia fatto temere eventuali ritorsioni nei confronti di chi avesse votato, è stata condannata da tutti gli attori politici. Le elezioni nella parte nord della città sono state quindi ripetute il 18 novembre scorso e, in un clima pacifico, si sono recati nei seggi il 22,3% dei 22.700 elettori.
"Ora stiamo iniziando a far superare i pregiudizi sulle persone che abitano dall'altra parte", ribadisce Syla, "ci sono perfino casi di amicizie nate tra ragazzi delle due comunità". Syla indica negli intereressi economici della criminalità una delle ragioni più forti dello stallo della situazione. Infatti, negli ultimi anni sono aumentati il contrabbando e i traffici illegali nella frontiera tra Kosovo e Serbia, rivendicata da entrambi i paesi e non controllata praticamente da nessuno. "In questo senso", afferma Syla, "serbi e albanesi si intendono benissimo. Però guai a cambiare lo status quo, perché i loro interessi potrebbero risentirne".
Il primo portale. Uno status quo che impedisce ai due paesi di mettersi d'accordo perfino sulle targhe delle auto, tanto che molte delle vecchie Yugo Lada che ancora circolano nella parte nord non la portano affatto. "I pochi albanesi che ancora vivono qui la tolgono per non essere riconosciuti ", mi spiega Fisnik Kumnova, 25 anni e coordinatore della rivista M-Mag, il primo portale di notizie on-line ad essere pubblicato in albanese, serbo e inglese, "mentre i serbi non la mettono per evitare di pagare il bollo ". Nata nel 2005 per evitare che potessero ripetersi, come nel 2004, che una notizia falsa scateni una tragedia, la rivista M-Mag ha una redazione costituita da giovani giornalisti di entrambe le comunità che si riuniscono in un piccolo appartamento, a 50 metri scarsi dal ponte. "Abbiamo introdotto un nuovo criterio di professionalità", mi dice Fisnik Kumnova, mostrandomi la sala dove sta per iniziare la riunione di redazione. "Siamo indipendenti e verifichiamo le notizie con almeno tre o quattro fonti diverse. Cerchiamo anche di essere il più possibile neutrali. Per esempio, evitiamo di usare i termini 'Repubblica del Kosovò o 'Kosovo y Mitohijà e usiamo solo 'Kosovo'". "Comunicare è l'unica maniera a nostra disposizione per risolvere la questione", aggiunge Zeljko Tvrdiši?, giornalista serbo della rivista, dall'altro lato del grande tavolo di vetro dove sono seduti tutti i collaboratori. "È per questo che sono ottimista, anche se solo relativamente", conclude Tvrdiši?. "Perché sai, tutto è relativo in Kosovo, anche la pace".
Il sole è già tramontato dietro le montagne. Sulle sponde dell'Ibar, i pochi pescatori rimasti si piegano, raccolgono le loro cose e vanno via. Torneranno lì, al ponte, il sabato successivo. Probabilmente, anche Todor.
Dal dominio ottomano alla resistenza dell'UCK
1389: Il 15 giugno, giorno di San Vito, le truppe ottomane sconfiggono quelle serbe nella battaglia della "Piana dei Merli", a nord di Priština, e impongono il loro dominio sui regni balcanici. Il Kosovo, considerato la culla dell'identità serba, passa sotto il comando di Bisanzio.
1945: nasce la Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia, guidata dal Maresciallo Josip Broz "Tito".
1974: Una nuova costituzione concede maggiori poteri e autonomia a le repubbliche a alle province autonome della Federazione Jugoslava, tra cui anche il Kosovo.
1980: Muore il Maresciallo Tito.
1981: Prime manifestazioni albanokosovare per la creazione di una Repubblica del Kosovo all'interno della Federazione Jugoslava. La polizia e l'esercito reprimono con durezza le proteste.
Marzo 1989: Giugno 1989: Miloševi?, in occasione delle commemorazioni per il 600º anniversario della battaglia, pronuncia un discorso in cui rivendica l'appartenenza serba del Kosovo. Pochi mesi aveva revocato l'autonomia della provincia, lo status di lingua co-ufficiale dell'albanese, chiuso le scuole autonome e rimpiazzato i funzionari amministrativi. Gli albanikosovari mettono in atto una resistenza non-violenta contro le imposizioni di Belgrado, liderata dallo scrittore Ibrahim Rugova.
25 giugno 1991: Slovenia e Croazia dichiarano la propria indipendenza dalla Jugoslavia. È l'inizio della guerra dei Balcani.
21 novembre 1995: Gli Accordi di Dayton pongono fine a quattro anni di guerra atroce. Il Kosovo rimane sotto l'amministrazione serba.
1996: Nasce la guerriglia albanokosovara dell'UÇK.
Febbraio-marzo 1998: Gli scontri armati tra l'UÇK e le forze di sicurezza serbe causano più di 80 morti nella zona della Drenica. È l'inizio della guerra del Kosovo.
24 marzo 1999: Dopo il fracasso dei negoziati di pace di Rambouillet e Parigi, la NATO inizia a bombardare la Serbia e il Montenegro. I raid aerei, a cui partecipa anche l'Italia, dureranno 78 giorni.
Giugno 1999: La Jugoslavia e la NATO firmano un primo accordo. L'ONU approva la risoluzione 1.244 che sancisce l'accordo di pace per il Kosovo. Comincia la ritirata serba dalla zona e la NATO sospende i bombardamenti. Il saldo è di 7.000 morti e 700 mila albanokosovari deportati. Gli albanokosovari che si erano rifugiati in Albania e in Macedonia tornano a casa, mentre si calcola che più di 200 mila kosovari di etnia non albanese abbandonano la provincia.
17 novembre 2001: Prime elezioni parlamentarie. Pochi mesi dopo, Ibrahim Rugova, leader del partito vincitore, verrà eletto presidente.
17-19 marzo 2004: Una serie di attacchi da parte di alcuni albanokosovari contro la minoranza serba si saldano con 28 civili morti, 900 feriti, 4.000 rifugiati. Più di 730 case e 29 monasteri ortodossi, molti dei quali Ptrimonio dell'Umanità UNESCO, vengono distrutti.
17 febbraio 2008: Il Kosovo dechiara unilateralmente l'independenza.
Maggio 2013: Il primo ministro kosovaro, Hashim Thaçi, e il suo omologo serbo, Ivica Da? i?, firmano un accordo che implica un riconoscimento de facto del Kosovo indipendente da parte di Belgrado e un tentativo di normalizzazione delle relazioni tra i due paesi.
Novembre 2013: Primo turno delle elezioni amministrativ. A Mitrovica nord un gruppo di uomini mascherati e armati di bastoni, hanno fatto irruzione in alcuni seggi elettorali, hanno distrutto le urne e rubato i registri elettorali.
Gennaio 2014: A Mitrovica nord viene assassinato il consigliere municipale Dimitrije Jani? ijevi?, del Partito Liberale Indipendente (SLS), considerata formazione "collaborazionista" da parte dei serbi del Kosovo che si oppongono al dialogo con Pristina.
Nicosia, l'ultima capitale divisa del mondo
NICOSIA - "Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Il vescovo si dirige con passo solenne verso il trono da cui celebrerà la funzione. Maria Tsiaklis segna come impone la tradizione ortodossa. Una, due, tre volte. Di fronte all'altare giacciono due piccole bare. Ognuna è avvolta da due bandiere: si distinguono chiaramente l'azzurro e il bianco di quella greca e il bianco e ocra di quella cipriota. Contengono i resti dei suoi nonni, due dei 1.464 grecociprioti dispersi durante l'invasione militare turca di Cipro, nel 1974. Una luce abaccinante trabocca dalle finestre, mentre fuori il calore spreme i fiori di zagara, inondando del loro profumo dolciastro le strade di Nicosia, l'ultima capitale divisa del mondo.
Una matita verde. Nel 1963 il generale inglese Peter Young tracciò con una matita verde una linea sulla cartina di Nicosia, da un capo all'altro. Il suo obiettivo era porre un freno ai violenti scontri tra i grecociprioti (l'80% de la popolazione) e i turcociprioti, che in un mese avevano lasciato sul terreno oltre un centinaio di morti. Gli scontri etnici, fomentati dagli inglesi durante il dominio coloniale, durarono per altri 11 anni. Finché, nel luglio del '74, la Turchia rispose al tentativo di colpo di stato organizzato dalla Grecia dei colonnelli con un'ivasione militare dell'isola. Alla fine di quell'estate un terzo della popolazione greca di Cipro, più di 180 mila persone, dovette abbandonare le loro case e stabilirsi alla forza a sud. Allo stesso modo, 40 mila turcociprioti furono deportati nel nord occupato dalle truppe di Ankara. Durante il conflitto persero la vita più di 4 mila persone, mentre il destino di 493 turcociprioti e di 1.508 grecociprioti sarebbe rimasto avvolto dalle tenebre per molti anni ancora. Ufficialmente missing, scomparsi. La linea sottile tracciata da Young si sarebbe trasformata in un confine di circa 180 kilometri che da 48 anni divide Nicosia tra la turcocipriota Lefko? a, a nord, e la grecocipriota Lefkosia, a sud. Una ferita tutt'ora aperta nella carne della sua storia millenaria.
La parte sud della città vecchia è oggi un dedalo di vicoli, negozi per turisti e giardini di bouganville. Solo gli alti muri avvolti dal filo spinato che interrompono bruscamente le stradine strette ricordano che questi pochi kilometri quadrati sono uno dei confini più militarizzati del mondo. 12 mila militari della Guardia Nazionale controllano la parte grecocipriota del confine. Davanti a loro i soldati del contingente turco, composto da 40 mila militari, vigilano l'autoproclamata Repubblica Turca del Cipro Nord (RTCN), riconosciuta internazionalmente solo dalla Turchia.
Nel mezzo, sorvegliata gelosamente da entrambi gli eserciti, si srotola una stretta lingua di strade rotte ed edifici fatiscenti. sorvegliata gelosamente da entrambi gli eserciti e dai Giovanni Drogo che li comandano. È una terra di nessuno dove solo l'azzurro dei caschi blu interrompe la monotonia dell'ocra delle pareti sbiadite. L'accesso alla Zona Morta è infatti prerogativa esclusiva delle forze di interposizione della misisone UNFICYP, un migliaio di militari dell'ONU stanziati sulla linea del 'cessate il fuocò da ormai 50 anni. Le frontiere sono rimaste ermeticamente sigillate fino al 2003, quando la RTCN decise di aprire il primo varco doganale. Negli ultimi anni ne sono stati aperti altri sei in tutta l'isola. Tuttavia, un terzo della popolazione di entrambi i lati non hanno mai attraversato il confine, e per la maggior parte di quelli che lo hanno fatto si è trattato di un evento episodico.
Il funerale. "Finalmente Dio misericordioso ha dato l'opportunità ai vostri nipoti di partecipare al vostro funerale". Maria, in piedi davanti all'altare, legge con voce rotta le poche righe che ha scritto per il funerale. Le uniche frammentarie informazioni che Maria è riuscita a raccogliere sulla sorte dei suoi nonni provengono dai racconti di un suo zio, rifugiatosi al momento dell'assalto dell'esercito in un pollaio. Il 22 agosto avrebbe visto i cadaveri dei nonni, uno sull'altro, sul pavimento della loro casa. Morti. Quelle stesse ossa di cui nessuno aveva saputo nulla fino a quando, quasi cinquant'anni dopo, quando un membro del Committe on Missing Persons in Cyprus (CMP) le telefonò per avvisarla che le ossa che avevano incontrato in una fossa comune potevano appartenere ai suoi nonni. Bisognava solo dare loro un nome.
Composto da rappresentanti delle due comunità e da un membro speciale dell'ONU, il CMP fu istituito nel 1982, ma non ha cominciato a funzionare fino al 2007. Durante 25 anni le autorità greco-cipriote fomentarono l'idea che molti degli scomparsi erano ancora vivi, rinchiusi in qualche carcere dell'Anatolia, per dimostrare che la guerra con Turchia non era mai finita. "Durante 25 anni le autorità greco-cipriote fomentarono l'idea che molti degli scomparsi erano ancora vivi, rinchiusi in qualche carcere dell'Anatolia, per dimostrare che la guerra con Turchia non era mai finita", spiega Francesco Grisolia, antropologo ed analista di Cipro del portale Osservatorio Balcani e Caucaso. "Le istituzioni turco-cipriote, in cambio", continua Grisolia, "davano per morti tutti quelli che non erano tornati a casa e li consideravano martiri della patria.
L'obiettivo era instillare l'idea che l'unica maniera affinché tutto ciò non si ripetesse era mantenere la divisione dell'isola". Il CMP attualmente coordina tutte le fasi del proceso: l'esumazione dalle fosse, l'identificazione dei resti, l'analisi del DNA e la restituzione dei corpi ai familiari. Ma ad una condizione: che in nessun caso debba risalire alle cause della morte nè ai suoi responsabili. Fino ad oggi è riuscito a stabilire l'identità ai resti di 513 persone, 388 grecocipriote e 125 turcocipriote, che sono stati restituiti ai loro familiari.
Riconoscimenti. Nelle enormi sale del Laboratorio di Antropología Forense del CMP ci sono ben ordinati femori, costole, denti. Qui Maria riconobbe, tra centinaia di ossa, la catena dell'orologio di suo nonno e le scarpe nere di sua nonna. "È come montare un puzzle di cui non abbiamo l'immagine", confessa Engin Istenc, la coordinatrice turcocipriota del laboratorio. Una volta ricostruito lo scheletro, si raccoglie un frammento osseo e si procede all'analisi del DNA, che verrà poi confrontato con quello della presunta famiglia d'appartenenza. "La parte più difficile di questo lavoro è ricevere l'informazione con il nome della persona ", chiosa la giovane antropologa forense grecocipriota Maristalla Kyrkintri. "È in quel preciso momento che le ossa che stai maneggiando si convertono in un individuo". Anche lei ha uno zio disperso, ma non vuole pensare a cosa proverebbe nello scoprire che le ossa che sfiora tutti i giorni sono le sue. "Credo che le tratterei come se fossero quelle di uno dei tanti casi che abbiamo qui", confida. "In fin dei conti, la parte più difficile rimarrebbe quella di dare loro un nome".
Per molte famiglie, tuttavia, accettare la morte di un padre, una sorella, un fratello scomparso, è un trauma. Un'equipe di psicologhe del CMP si incarica di informare la famiglia e di prepararla al momento del riconoscimento. "Molte donne dell'isola continuano a cucinare tutti i giorni il piatto favorito del loro marito. Nel caso torni proprio quel giorno", spiega Ziliha Uluboy, una delle psicologhe turcocipriote del CMP. "Quando si perde una persona cara e non c'è la possibilità di fare un funerale, la ferita rimane aperta", aggiunge Liza Zambas, la sua collega grecocipriota. "Molte madri hanno mantenuto intatta la stanza dei loro figli per tutti questi anni. Non è facile per loro cambiare questa abitudine da un giorno all'altro". E conclude: "Tutti hanno sofferto lo stesso trauma e l'unica maniera di superarlo è condividerlo".
Circa tre anni fa, durante una cena diplomatica con l'inviato speciale dell'ONU Alexander Downer, l'ex presidente greco-cipriota Christofias e il leader turco-cipriota Eroglu, le mogli dei due politici dell'isola scoprirono que entrambe avevano un un fratello scomparso. L'episodio fu letto come una speranza per la riconciliazione. "Il problema dei desaparecidos è l'unico per il quale gli esponenti delle due comunità si mettono d'accordo ", afferma Oleg Egorov, fino a poco tempo fa assistente speciale del segretario della Comissione dell'ONU per Cipro. "In tutte le altre faccende, la sfiducia reciproca è enorme. Su questo punto, invece, le due comunità se uniscono perché lo vogliono, non perché le obblighi la comunità internazionale. Ad ogni modo", dice rassegnato Egorov, "condividere il dolore è necessario, ma non sufficiente".
Negoziati. I negoziati tra politici grecociprioti e rappresentanti del nord dell'isola sono stati costanti. E costantemente sono fracassati. Così come avvenne nel 2004, quando la maggioranza dei greco-ciprioti votarono 'nò al referendum sul Piano Annan, la proposta della creazione di una repubblica federale bi-comunale e bi-zonale. Il 65% dei turco-ciprioti avevano votato positivamente, pero era indispensabile che entrambe le comunità lo approvassero.
Tre sono gli scogli principali contro cui hanno naufragato i negoziati. Il primo è quello dello status degli immigrati turchi che si sono installati, sotto l'auspicio spesso coatto della Turchia, nel nord dell'isola negli ultimi 50 anni. Il secondo concerne la restituzione o la compensazione delle proprietà che la gente possedeva dall'altra parte dell'isola, prima di essere dislocati. Ed infine, la presenza militare sull'isola e lungo il confine.
"Nei negoziati bilaterali, l'aspetto umanitario non è mai in agenda. Non si discute mai del dolore che ha vissuto la gente", spiega Sevgul Uludag, la giornalista che negli ultimi dieci anni si è impegnata di più per rompere il tabù che attanagliava le due comunità sul tema dei desaparecidos. Per il suo lavoro è stata più volte minacciata di morte, soprattutto da esponenti della sua comunità, la turcocipriota. Nonostante la paura, ha continuato a raccontare le storie delle persone scomparse, dei massacri e di chi li ha coperti. Nel 2006 ha raccolto le sue indagini nel libro Oysters with the missing pearls, pubblicato in turco, greco e inglese. "È stato uno shock enorme per le nostre comunità scoprire che anche l'altra aveva dei desaparecidos. Ogni fazione tendeva a vittimizzarsi, a piangere solo per il dolore proprio. Invece", aggiunge Uludag, "ho provato a far sì che tutte e due capissero che i crimini c'erano stati da entrambe le parti e che in entrabe le comunità c'erano dei colpevoli. E questo ha significato un terremoto. Ma voglio dimostrare come il nostro dolore in comune serva per costruire il nostro futuro in comune".
Cimitero. I raggi del sole cadono a picco salla punta dei cipressi del piccolo cimitero. Tutti i membri della famiglia Tsiaklis si accalcano sui bordi del fosso scavato dai seppellitori. Maria, accanto al sacerdote, ripete le ultime orazioni. Stanno collocando le bare nella tomba, la stessa di suo padre. Una prima vangata di terra. Una seconda. Poi tutte le altre. Una lapide di granito viene spostata per richiudere la tomba. Sopra, due foto in bianco e nero. "I miei nonni si chiamavano Maria e Mikhail".
Da colonia inglese al conflitto con la Turchia
1878: L'Impero Ottomano concede l'amministrazione dell'isola al Regno Unito.
1925: Cipro diventa una colonia britannica.
1951: L'Arcivescovo ortodosso Makarios III rivendica il diritto dell'isola all'autodeterminazione.
1955: L'EOKA, l'organizzazione indipendentista appoggiata da Makarios III, inizia la lotta armata per conseguire l'énosis, l'unificazione di Cipro con lo stato greco.
1960: In basa agli accordi firmati a Londra e Zurigo un anno prima, viene proclamata la Repubblica di Cipro; la Grecia, la Turchia e il Regno Unito sono i garanti della sua costituzione.
1963: Makarios III, primo presidente del nuovo stato, propone delle modifiche alla costituzione, rifiutate però dai turciciprioti, che per protesta si aggruppano in enclavi. A dicembre scoppiano dei violenti scontri etnici che provocano 134 morti, 108 dei quali turcociprioti. I militari inglesi dividono Nicosia in due parti.
1974: Nel luglio, i colonnelli che guidano la dittatura in Grecia organizzano un golpe sull'isola. L'organizzazione nazionalista e terrorista EOKA B depone Makarios III ed impone come presidente Nikos Sampson. Ad agosto, le truppe turche occupano la parte settentrionale dell'isola. Da entrambi le parti vengono commesse torture, omicidi e sparizioni forzate. Al termine del conflitto, Cipro viene divisa in due amministrazioni distinte. La frontiere vengono stabilite lungo la Buffer Zone, la zona-cuscinetto stabilita dall'ONU.
1983: Nasce la Repubblica Turca di Cipro del Nord (RTCN), riconosciuta internazionalmente solo dalla Turchia.
2003: Ad aprile la RTCN apre il primo varco nella propria frontiera. Migliaia di persone attraversano il confine per la prima volta.
2004: Viene celebrato un referendum per decidere la possibilità di riunificare l'isola. Le consultazioni sono solo l'ultimo tassello del "Piano Annan", un progetto impulsato dall'allora segretario generale dell'ONU, che prevedeva la creazione di una repubblica federale bi-comunale e bi-zonale. I grecociprioti votano maggioritariamente 'no', mentre il 65% dei turcociprioti votano 'sì'.
2014: A febbraio il Presidente grecocipriota Nikos Anastasiadis e il suo omologo turcocipriota Dervi? Ero? lu rilasciano una dichiarazione congiunta, in cui si auspica una ripresa dei negoziati tra le due comunità.
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