È tutt'altro che una marcia trionfale quella che si
prospetta per l'Armée francese in Mali, che già mercoledì sarebbe stata
coinvolta in scontri di terra coi ribelli. Per il momento, l'unico esito certo
della nuova spedizione militare africana d'Oltralpe è consistito in due tragici
spin-off: il sequestro e l'uccisione di un numero imprecisato di lavoratori
occidentali in un impianto estrattivo in Algeria e l'uccisione di un agente
francese (da lungo tempo nelle mani dei suoi rapitori) in Somalia.
Il rischio
che l'incisione del bubbone qaedista in Mali provochi il contagio
dell'infezione in vaste parti dell'Umma islamica è senz'altro ben presente alle
autorità francesi e a quelle di tutte le altre nazioni che hanno accettato di
contribuire a sostenerne lo sforzo: dagli Stati Uniti alla Nigeria, dalla
Danimarca all'Italia, dalla Gran Bretagna alla Germania. D'altronde, sono molti
e circostanziati gli indizi che fanno ritenere che una parte cospicua della
panoplia a disposizione
dei ribelli maliani provenga dal saccheggio degli arsenali
del colonnello Gheddafi: ancora una volta uno spin-off negativo dell'ultima
campagna militare volta alla messa in sicurezza dell'estero vicino europeo. Ed
è proprio guardando agli esiti della guerra di Libia - l'ultima
"vittoria" conseguita dalle armi occidentali - che ne esce rafforzata
la sensazione che l'uso della forza militare, la guerra per chiamare le cose
col loro nome, riesca sempre meno a conseguire l'obiettivo politico per cui
viene decisa. OAS_RICH('VideoBox_180x150'); Il
paradosso è che l'ultima guerra che ha centrato il suo obiettivo è stata quella
mai davvero combattuta: la Guerra Fredda. Quella sì "vinta" senza
ombra di dubbio nei confronti dell'avversario sovietico, nonostante le tante
sconfitte subite dall'Occidente nei teatri periferici (dall'Indocina all'Africa
australe) dove essa alimentava o patrocinava dispute locali. Dopo di allora, con
l'eccezione di campagne
all'obiettivo limitato (la liberazione del Kuwait nel
1990-91) o a costo di un insieme di pesanti compromessi e prolungate
occupazioni (come nei Balcani) le cose sono andate storte: basti pensare alla
situazione attuale di Iraq e Afghanistan. Un secondo paradosso è che più
diventavamo consapevoli della insufficiente efficacia dello strumento militare
e più ci abbiamo fatto ricorso: in parte perché le circostanze lo consentivano
in virtù della nostra straordinaria superiorità logistica e tecnologica; in parte
perché non sapevamo che altro fare in assenza di un'altrettanto rampante
superiorità politica. Si potrebbe persino avanzare l'ipotesi che proprio
l'erosione della supremazia politica occidentale sul sistema internazionale ci
abbia invogliato a spingere il confronto sul campo dove continuiamo a possedere
una (illusoriamente) confortante supremazia: quello militare appunto. Di fronte
alle difficoltà incontrate sul terreno, e alla debolezza o alla concreta
irrealizzabilità
delle dottrine strategiche elaborate (la guerra preventiva),
abbiamo cercato persino di convincerci che concezioni tattiche come quella
della "guerra contro-insurrezionale" elaborata dal generale Petraeus
potessero rappresentare la pietra filosofale in grado di riconnettere guerra e
politica, ignorando peraltro l'eterna lezione di Clausewitz sul rapporto
strumentale della prima rispetto alla seconda. Sarebbe rassicurante poter
rinchiudere nel recinto del dibattito accademico considerazioni di questo tipo,
se non fosse che il legame tra superiorità militare, supremazia politica e
centralità economica è stato tanto evidentemente cruciale nel determinare la
posizione occidentale nel mondo e nel presidiarla. C'è infine un terzo
paradosso in tutta questa storia, infatti, è che sull'asset militare, per
quanto poco risolutivo si stia dimostrando, l'Occidente non ha sostanzialmente
rivali, mentre su quelli politici ed economici le cose sono ben diverse. C'è
poco da stare allegri, dunque,
nel constatare che la guerra sta perdendo efficacia nel
tutelare o imporre l'ordine, perché invece essa mantiene tutta la sua capacità
dis-ordinante. Quello che rende infatti così difficile sconfiggere il jihadismo
o di prevalere nelle diverse, ricorrenti forme di guerra asimmetrica sta molto
di più nel tipo di legame tra risorse politiche, economiche e militari a
disposizione dei nostri nemici che non nelle dottrine tattiche con cui essi
combattono. Piuttosto che inseguire allora l'elaborazione della tattica o della
strategia perfetta - compito peraltro al quale i militari si applicano con
maggiore creatività e minor conservatorismo di quanto dimostrino tanti
intellettuali nel proprio ambito di ricerca - sarebbe opportuno provare a
lavorare sugli asset politici ed economici a nostra disposizione. Prima di
ritrovarsi impegnati in un'ennesima "guerra contro il terrorismo",
dalla quale chiederemmo poi ai militari di cavarci d'impiccio, a causa dell'incapacità
della politica di indicare obiettivi perseguibili, strumenti adeguati e risorse
sufficienti.
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