Il 29 marzo del 2012 scrivevo su queste colonne, ne «Il golpe in Mali e la primavera dei Tuareg», che la battaglia per il controllo minerario dell'Africa Nera era appena iniziata. Bastava guardare la carta geografica. Il Mali confina con il Niger e il Niger è la porta d'accesso a ciò che rimane, diviso, martoriato, segnato da nuovi conflitti, del grande ex Congo Belga. La disgregazione della Libia, con lo sprofondamento del Fezzan e del Sinai nel caos per la caduta di Gheddafi e per la sostituzione dei militari di Mubarak con i Fratelli musulmani, ha fatto sì che l'entropia e il disordine si propagassero a macchia d'olio oltre i confini dei grandi deserti sahariani.
A me pare di leggere le sublimi pagine di Hegel sulla costruzione degli Stati europei, costruzione che al grande filosofo appariva, all'inizio dell'Ottocento, incerta e assai difficile. Figuriamoci l'Africa, direte. E direte anche: non vi è nulla di nuovo, dunque? Vi è moltissimo di nuovo, invece.
Illustr. di Chiara Dattola
La gracile formazione dei nuovi Stati africani, come ci ha fatto benissimo capire il Corriere della Sera di ieri, è ora insidiata da un nemico temibilissimo senza Stato, ossia senza confini. Parlo del nuovo progetto imperiale dell'islamismo radicale, che tutto supera con tecnologie avanzatissime e una visione geostrategica sovranazionale ignota per l'Africa degli ultimi due secoli. Chi combatte gli infedeli che hanno distrutto la Libia gheddafiana e che rischiano di dilagare se mai cadesse la Siria alawita, sono ora i sostenitori di un nuovo regime imperiale africano postcoloniale: sono gli islamisti radicali, salafiti e jihadisti di varie sette che, occupato che fosse il Mali, si espanderebbero più rapidamente sia a ovest, verso l'Algeria e il Niger, sia a sud verso il Burkina Faso e la Nigeria e poi, di lì, il Congo.
La posta in gioco è il controllo da parte di un nuovo - di fatto - califfato islamico dell'Africa centrale delle risorse energetiche del continente intero. Con la Cina che non ha ancora deciso con chi stare. L'attacco degli impianti condivisi dalla Bp (inglese), della Statoil (norvegese) e della Sonatrach (algerina) non sono affatto o non sono soltanto una rappresaglia contro la decisione algerina di permettere agli aerei francesi di sorvolare il territorio della Repubblica, ma una precisa azione simbolica di rivendicazione neoislamista delle risorse energetiche africane.
Con l'insorgere dell'Islam politico armato, infatti, tutto cambia. Gli europei se ne sono accorti, anche se giustamente in sordina. Anche la Germania, sempre così ostile all'impegno militare, in questo caso non ha esitato a schierarsi a fianco della Francia, che ha una lunghissima esperienza di guerra nel cuore africano.
Le risorse energetiche del colosso africano sono legittimamente viste come il cuore della crescita, anzi, io aggiungerei, della sopravvivenza futura.
Anche l'Italia deve capire che è finita un'epoca. Non si può, oggi, condurre la politica postcoloniale africana solo come si faceva un tempo, intrecciando legami con i gruppi dominanti africani. Oggi anche il potere delle organizzazioni, neo clanistiche e post tribali, è posto in discussione da un attore geostrategico e politico che sino a oggi in Africa non avevamo mai conosciuto: l'Islam radicale che non si limita al controllo territoriale (Somalia, Sudan), ma aspira a un dominio sovranazionale che sconvolge i fragilissimi rapporti interstatuali che in Africa in questi ultimi due decenni con grande fatica sono andati costruendosi.
Si tratta, dunque, di una battaglia che va combattuta con diverse strategie, senza poter più escludere la guerra, la lotta armata, come da tempo hanno compreso i francesi e gli anglosassoni sotto mentite spoglie (gli Stati civetta del Ruanda e del Burundi da cui partono gli attacchi al Congo di Kabila).
L'Italia, potenza mediterranea di medio raggio, non può non far sentire la sua voce anche militarmente, pena l'esclusione per sempre dall'Africa Nera e dalla nuova Africa tutta che va costruendosi, dal Mediterraneo al Polo Sud.
Occorre spendere e molto, con la radicale messa in discussione dei vincoli di bilancio europei. In potenza possediamo tutto ciò che serve: un'industria militare e paramilitare di eccellenza; degli studiosi giovani, ansiosi di imparare e di capire.
Ma dobbiamo rinnovare il nostro pensiero politico. Sarà opportuno (dopo la campagna elettorale, per carità, per non disturbare alcun manovratore) iniziare a farlo con coraggio e serenità, se non vogliamo compromettere per sempre il nostro futuro.
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