sabato 7 luglio 2012

TERRITORI ARTICI E PETROLIO. MANES L., Artico ultima frontiera petrolifera, IL MANIFESTO, 6 luglio 2012

L'Artico è ormai divenuta una delle ultime frontiere del petrolio. La diminuzione delle riserve in numerosi punti del Pianeta sta infatti spingendo le oil corporation a cercare nuove fonti di approvvigionamento. Poco importa se in località "estreme" e con ecosistemi molto delicati. Come appunto la regione dell'Artico, dove in prima linea c'è, tra le altre, l'anglo-olandese Shell. Le sue attività nei freddi mari dell'estremo nord del globo sono state fortemente criticate da un rapporto appena reso pubblico dalla Ong inglese Platform. In Out in the Cold si denunciano i pesanti impatti ambientali legati alla trivellazione dei fondali dell'Alaska e delle altre località vicine al Polo, dove si celerebbero ingenti quantità di oro nero.


La stessa Shell ha voluto dare la sua versione in merito alle possibili conseguenze degli sversamenti di greggio in acqua, di fatto ammettendo in maniera parziale che in quel contesto climatico così complesso più di fare opera di contenimento dei danni non si può. Una volta che il petrolio inzuppa le lastre di ghiaccio presenti nel mare la catastrofe ambientale è bella e servita. Secondo gli esperti, sarebbe già tanto se si riuscisse a recuperare il dieci per cento del greggio fuoriuscito. Una percentuale insignificante, che ben chiarisce quali sono i rischi a cui si va incontro in una situazione del genere.
Quasi pleonastico sottolineare come le principali organizzazioni ecologiste del mondo, con Greenpeace in prima fila, si siano mobilitate da tempo per chiedere uno stop alle attività delle compagnie petrolifere. Ma forse questa volta un insperato quanto improbabile aiuto può giungere dal settore bancario.
Il mese scorso l'istituto di credito tedesco WestLB ha divulgato le sue nuove politiche ambientali, in cui si dichiara espressamente che non saranno concessi finanziamenti per attività estrattive in acque profonde dove la temperatura non supera i 10 gradi. Così la banca non dovrebbe sostenere in alcun modo lo sfruttamento delle riserve petrolifere nelle regioni artiche. A quanto è dato sapere, le disposizioni della WestLB sono le prime ad avere un carattere così restrittivo e che vanno nella direzione della tutela ambientale di zone dove gli ecosistemi sono molto sensibili.
Come confermato dagli stessi vertici dell'istituto di credito, però, è il rischio di natura economica a preoccuparli di più e ad averli spinti a prendere una decisione del genere. Dustin Neuneyer, uno dei top manager, ha affermato che «in caso di sversamenti, i costi per ripulire l'area inquinata sarebbero altissimi». Neuneyer ha aggiunto che altre banche con cui è entrato in contatto sembrano molto interessate all'applicazione di questo tipo di linee-guida.
Anche la compagnia di assicurazione londinese dei Lloyd's in un documento certifica i pericoli di carattere finanziario legati a questo tipo di operazioni, tanto da richiedere alle compagnie coinvolte di «valutare con molta attenzione le conseguenze delle loro azioni». Insomma almeno nella City, anche grazie a gruppi di pressione come Fair Pensions, che stanno facendo sentire la loro voce sulla delicata tematica, sta crescendo la consapevolezza che investire sulla trivellazione dell'Artico è tutt'altro che un buon affare.
C'è un ulteriore caso quanto mai esplicativo: solo per le esplorazioni preliminari al largo delle coste della Groenlandia, che poi non hanno dato i risultati sperati, la compagnia di Edimburgo Cairn Energy ha perso oltre un miliardo di dollari. Un buon motivo per lasciare in pace i fondali ghiacciati del profondo Nord.

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