L'Unicredit negli ultimi cinque anni ha erogato oltre
cinque miliardi di euro in finanziamenti destinati al settore dell'estrazione
del carbone, il combustibile fossile che ha un impatto maggiore in relazione al
fenomeno dei cambiamenti climatici.
A rivelarlo un rapporto presentato
durante la conferenza dell'Onu sul clima in corso a Durban da alcune
organizzazioni non governative internazionali, tra cui l'italiana Campagna per
la riforma della Banca mondiale, coordinate dalla tedesca Urgewald. Lo studio,
dal titolo Bankrolling Climate change, ha preso in esame il portafoglio prestiti
dei 100 principali istituti di credito del pianeta. Dal 2005, ovvero da quando è
entrato in vigore il protocollo di Kyoto, le banche hanno finanziato le 31 più
importanti aziende estrattive e i più rilevanti 40 produttori di energia tramite
carbone con una cifra di poco superiore ai 230 miliardi di euro.
Nella
«speciale classifica» stilata dalle ong, l'italiana Unicredit si piazza
quindicesima. Nelle prime tre posizioni troviamo tutte banche statunitensi: JP
Morgan (16,5 miliardi), Citibank (13,7 miliardi) e Bank of America (12,6
miliardi). Nella top 20 sono annoverati anche istituti di credito di Regno
Unito, Germania, Francia, Svizzera, Cina e Giappone. Le ong definiscono queste
banche, senza mezzi termini, «killer del clima».
Val la pena rammentare
che le centrali a carbone hanno dei costi di realizzazione molto elevati. Per
costruire un impianto in grado di produrre 600 megawatt servono almeno due
miliardi di dollari: è chiaro che l'accesso al credito per le aziende del
settore diventa un elemento fondamentale per continuare un business lucroso
quanto inquinante. Non a caso tra il 2005 e il 2010 la portata dei finanziamenti
è raddoppiata e, sostengono gli attivisti, qualora non si ponga un limite la
crescita è destinata a continuare senza freno.
È senza dubbio singolare
come tutte le banche ai primi posti di questa classifica abbiano sottoscritto in
passato promesse molto ambiziose in termini di lotta ai cambiamenti climatici -
tutte aderiscono a documenti di principio volontari che suonano molto bene
evidentemente però disattesi dalla pratica quotidiana. I Carbon Principles e i
Climate Principles, iniziative di natura volontaria, hanno così mostrato i loro
limiti, proprio perché mancano qualsiasi tipo di vincolo: sono pure
dichiarazione d'intenti senza alcun costrutto. O, peggio ancora, un utile
strumento pubblicitario.
Nel caso dell'Unicredit, nonostante la banca abbia
sottoscritto l'impegno di ridurre le sue emissioni di CO2, uno dei maggiori gas
«di serra», del 30 per cento entro il 2020, continua a finanziare il business
del carbone, e in particolare alcuni dei progetti più nefasti oggi sul mercato.
Come ad esempio in Slovenia, dove la realizzazione dell'impianto TES6 vincolerà
per i prossimi 40 anni ben l'80 per cento delle emissioni permesse al paese
secondo gli accordi europei, sottraendo così soldi e opportunità per lo sviluppo
del settore rinnovabile.
Secondo Bobby Peek, dell'organizzazione
sudafricana Groundwork, «lo studio sbugiarda gli istituti di credito che con il
loro operato stanno destabilizzando il clima, ma evidenzia come nuovi progetti
minerari e di estrazione del carbone stanno trovando sempre più spesso una netta
opposizione da parte delle popolazioni locali in tutto il mondo». Dopo le
imprese, suggerisce Peek, è arrivato il momento di mettere pressione sulle
banche, «nella speranza che prima o poi divengano degli attori climatici
responsabili». Chissà se e quando tutto ciò succederà mai.
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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