«Imperfetto», aveva premesso Madam Chair fin dall’apertura della sessione finale, ma indispensabile per evitare che, nella storia della lotta al cambiamento climatico, il nome di Durban (e quello del Sudafrica) sia associato a un fiasco, come già avvenne due anni fa a Copenaghen e, in misura minore, l’anno scorso a Cancun. Ma finalmente «approvato!», nonostante le facce lunghe degli statunitensi, quelle impenetrabili dei cinesi, quelle dolenti dei giapponesi e quelle visibilmente contrariate di boliviani e nicaraguensi.
La battaglia sulle condizioni della marcia forzata della comunità internazionale verso una progressiva riduzione delle emissioni di gas serra si è conclusa in extremis con un compromesso sui termini che hanno opposto per giorni e notti i negoziatori europei, americani e asiatici: tra il blando «contesto legale», che avrebbe preferito l’algido Todd Stern, inviato della Casa Bianca, e il più netto «legalmente vincolante», sostenuto dalla battagliera commissaria europea per il clima, Connie Hedegaard, si è finalmente trovato un punto di incontro sulla «forza legale» del patto globale cui si comincerà a lavorare l’anno prossimo, sarà siglato nel 2015 e diventerà operativo nel 2020. Per l’amministrazione Obama vuol dire poter attraversare indenne quasi un altro mandato e, comunque, non infastidire proprio ora, a un passo dalle urne, una parte del suo elettorato, la più potente, con misure troppo restrittive sui carburanti fossili.
D’altronde era difficile per Stern replicare alle argomentazioni della Hedegaard: «Problemi internazionali richiedono legislazioni internazionali – ha ripetuto ieri notte la commissaria europea per il clima -. La Ue ha cercato di ridurre le sue emissioni con il Protocollo di Kyoto, e ha funzionato». A Durban, Europa, Norvegia, Svizzera, Australia, hanno concordato di rinnovare per altri cinque anni, l’osservanza delle regole legalmente imposte dal trattato firmato nel 1997: «Quindi – ha proseguito la Hedegaard – non è molto chiedere che anche altri paesi prendano finalmente impegni vincolanti». Ma è stata la profondità giuridica di quel vincolo a rischiare, fino all’ultimo, di far naufragare i negoziati. Dopo l’intervento di Jayanthi Natarajan, ministro dell’Ambiente indiano, che ha reclamato «equità» nell’accordo; dopo le parole del ministro cinese, Xie Zhenhua, che ha condiviso le critiche implicitamente rivolte agli Usa, sui «Paesi che non stanno facendo quello che gli altri fanno», gli Usa hanno cercato di allearsi al Brasile, riconoscendo la Piattaforma di Durban come «un punto di partenza storico» e accettando l’ultima formula coniata dalla diplomazia per il futuro accordo «con forza legale».
Le Ong e le associazioni ambientaliste diffonderanno nelle prossime ore i loro commenti: molto sollievo per lo sventato fallimento, poca convinzione sull’efficacia di una «road map» che porta a obiettivi ancora insufficienti per frenare il surriscaldamento di 4 gradi del pianeta, e le sue devastanti conseguenze sull’eco sistema. E dubbi altrettanto forti sul Fondo Verde per il clima, gli aiuti ai paesi più poveri per lenire i danni e facilitare lo sviluppo di tecnologia verde: sarà gestito dalle Nazioni Unite ma, a Durban, non è stato chiarito chi lo finanzierà.
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