ambiamenti profondi
«Si tratta di cambiamenti profondi e preoccupanti», ha spiegato a Le Monde, che ha fatto un servizio su questo caso, l’antropologa Beatriz Matos che studia gli indigeni incontattati. Quelli apparsi a Simpatia fanno parte di una tribù del rio Xinane che vive sul confine tra Brasile e Perù e si sposta in base alle stagioni. I cinque «riemersi» hanno raccontato che un gruppo di uomini armati aveva ucciso molte persone della loro etnia, buttando poi i corpi in una fossa comune. Ma fin qui non c’è niente di nuovo: il nostro mondo ha cancellato il loro. Nel 1500 vivevano oltre 3 milioni di indigeni in Brasile, nel 1957 ne erano rimasti 70 mila, lo 0,10% della popolazione del Paese (dati Funai, ente governativo che si occupa delle questioni indigene). Nel corso del 1900 è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 tra il 1900 e il 1957. Un genocidio che, a differenza di altri, viene ricordato molto meno.
a natura e i suoi veri protettori
Nel mondo esistono 120 mila aree protette, pari al 13% delle terre emersa, e l’80% è abitata da popolazioni indigene, che ci vivono da sempre. A sloggiarli ci provano in tanti, per estrarre diamanti, costruire dighe e strade, tagliare legname. E anche per «tutelare» zone incontaminate senza residenza umana, obiettivo di una parte del mondo ambientalista. «I veri creatori dei parchi nazionali», ha scritto Stephen Corry, antropologo e direttore generale di Survival International, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, «non sono gli ideologi e gli evangelisti del movimento ambientalista, ma i popoli indigeni che hanno dato forma ai loro paesaggi con una conoscenza e una capacità di comprensione della natura accumulate nel corso di innumerevoli generazioni». La wilderness, da noi guardata con un misto di ammirazione e timore e spesso utilizzata come becchime per attrarre turisti «avventurosi», è semplicemente la natura, quella in cui sono vissuti da sempre i popoli indigeni, che hanno imparato a conoscerla e a preservarla. E ora da molti di questi luoghi li si caccia fuori per creare parchi, aree protette, riserve dove spesso si fanno largo colonne di jeep con tettucci apribili dai quali sbucano macchine fotografiche che mitragliano scatti, o fucili di precisione che tentano il big five senza badare a spese: 35 mila dollari per un elefante, 24 mila per un leone e 9.400 per l’ippopotamo (tariffe sulla price list di African Sky Hunting).
tranieri in patria
«Prima ci hanno espropriato nel nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo, e ora nel nome della conservazione», ha dichiarato un gruppo di delegati indigeni a un Congresso mondiale dei parchi di qualche anno fa. Uno studio sulle aree protette dell’Africa subsahariana stima che le persone deportate siano più di 50 mila, ma altri parlano di milioni. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», ha detto Jumanda Gakelebone, un boscimane che viveva nel Kalahari, nell’area dove ora è sorta la Central Kalahari Game Reserve, in Botswana. I Masai, popolo di pastori nomadi, in Tanzania e in Kenya sono stati sottoposti a ondate di espulsioni di massa e confinati in appezzamenti di terra sempre più piccoli, inversamente proporzionali a quelli concessi alle società dei safari e ai tour operator. In molti luoghi è stato proibito ai Masai di far pascolare le greggi, come nel cratere dello Ngorongoro, proprio lo stesso dove ogni anno passa, sulle jeep, mezzo milioni di turisti. Nel 2013 a bloccare un progetto che prevedeva ulteriori sfratti è intervenuto il primo ministro Mizengo Pinda: «Siamo arrivati alla conclusione che i pastori masai che hanno abitato queste terre da tempi immemorabili sono di per sé degli ottimi conservazionisti».
Meglio tardi che mai
Nel frattempo però, anche se nessuno è ormai nemmeno più in grado di calcolare il loro numero, sono decine i milioni i «rifugiati della conservazione» sparsi per il mondo, costretti a vite di stenti e disperazione dopo che sono state tagliate le radici che li legavano alla loro natura. Le autorità indiane, secondo quanto riporta un dossier di Survival International, che punta il dito anche contro diverse associazioni ambientaliste internazionali, hanno invece cominciato a creare zone inviolabili per le tigri all’interno dellaSimilpal Tiger Reserve, nello Stato dell’Orissa. Le famiglie dei Khandia sono state spostate, anche con promesse di risarcimenti mai mantenute, così come è avvenuto in altre parti del Paese. Ma una volta sfrattati gli indigeni, sono arrivate strade, alberghi e pulmini zeppi di turisti a bocca aperta. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal ha mostrato un calo del numero di tigri proprio nel cuore dell’area «liberata» dalla popolazione che ci viveva. Il modo con cui le comunità locali gestivano l’area creava un habitat migliore anche per le stesse tigri.
La Banca mondiale
In India, solo nel 2009, sono stati 100 mila gli indigeni fisicamente spostati, «mentre numerosi milioni sono stati privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali di questo Paese, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre o i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto». Il Wwf, la principale organizzazione ambientalista accusata da Survival di avvallare questa «industria della conservazione», che spiana gli indigeni e non salva la natura, respinge tutte le accuse. Anzi, il suo portavoce Phil Dickie, dice «che la nostra associazione è da sempre convinta che i popoli che vivono da generazioni in paesaggi particolari per nessun motivo, né in nome della conservazione né per qualsiasi altra ragione, devono essere spostati dal loro habitat contro la loro volontà». Del resto, che i veri guardiani delle foreste siano i popoli indigeni lo dice a chiarissime lettere anche uno studio di Claudia Sobrevila, responsabile del dipartimento ambiente della Banca mondiale: «I dati raccolti nell’Amazzonia, ma anche nelle aree forestali del Centro America e del Messico meridionale, mostrano una stretta correlazione tra presenza indigena e salvaguardia degli ecosistemi naturali». E ancora: «Il parco di Yellowstone, realizzato con l’allontanamento forzato nel 1871 degli indiani Shoshone-Bannock in una riserva per creare un’area incontaminata, è stato usato come modello in molti altri casi. Per esempio con la deportazione degli Ik (o Teuso) per creare Kidepo National Park in Uganda o dei Mongondwo per il Domonga-Bone National Park a Sulawesi. Sono tutti casi nei quali si sono creati problemi sia alla popolazione sfrattata, sia all’ambiente».
L’allontanamento delle tribù
E quindi la Banca mondiale, non un movimento indigeno, ha deciso di contrastare tutti i progetti che prevedano l’allontanamento delle tribù dai loro territori, come avvenuto nel gennaio 2014, quando il Kenya sfrattò le comunità Sengwer dalle terre ancestrali delle Cherangany Hills. Vennero date alle fiamme più di mille abitazioni insieme a riserve alimentari, coperte e materiali scolastici. In quanto finanziatrice della società che aveva effettuato gli sfratti, la Banca mondiale ordinò delle indagini e si appellò poi direttamente a Uhuru Kenyatta, presidente del Kenya, per assicurarsi che i diritti dei Sengwer fossero protetti. Oggi, la maggior parte degli indigeni sono tornati a casa nonostante il terrore lasciato dalla vicenda e le continue minacce e vessazioni. Ad accompagnare l’apertura del parco di Yellowstone, non a caso citato nel rapporto della Banca mondiale, c’erano le «trionfali» parole dell’allora presidente Theodore Roosevelt: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi… È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».
«God bless America», ma fino a un certo punto
Il problema è che Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society, quasi un secolo e mezzo dopo l’apertura di Yellowstone, abbia detto che «Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua politica interna. In pratica il mio lavoro in Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa». In Italia una delle persone che ha conosciuto più da vicino il delicato rapporto tra tutela della natura e salvaguardia delle popolazioni locali è Michele Menegon, ricercatore di biodiversità tropicale del Museo delle scienze di Trento. In altre parole, più semplici, è uno dei pochissimi che fa ancora l’esploratore, e poi passa il resto del tempo in laboratorio o a tenere conferenze. Negli ultimi vent’anni è stato nelle foreste di Tanzania, Congo, Ruanda, Etiopia e Mozambico.
Un tema complesso
«È un tema complesso, che si è complicato per la dissennata distruzione delle foreste. Non esiste più una soluzione unica, bisogna analizzare caso per caso e a volte non c’è altra possibilità se non trovare una linea di compromesso. Prendiamo l’esempio del Ruanda che, fino a trent’anni fa, aveva moltissime foreste. Oggi ne è rimasta una, e i Batwua sono stati messi fuori. I pigmei, come molte altre tribù indigene, hanno un equilibrio perfetto con la natura che si basa su una vita seminomade, si spostano in modo che le risorse vengano sfruttate con un principio di rotazione. Se si stringe troppo la loro area, questo non può più funzionare e la foresta rimasta verrà distrutta per sempre. I governi della Repubblica democratica del Congo e dell’Etiopia hanno di recente ceduto l’uso di vastissime aree fuori dai parchi naturali alla Cina e ad altri Paesi, che sono liberi di fare ciò che vogliono: tra 50 anni le uniche foreste sopravvissute saranno quelle nelle aree protette. In Africa si è girato lo sguardo dall’altra parte di fronte alla deforestazione e adesso la situazione è drammatica. Certo che non è giusto far pagare alle popolazioni indigene le conseguenze di errori che non hanno commesso loro».
ome in gabbia
Un altro che ha conosciuto i popoli indigeni da vicino, in Papua Nuova Guinea, in Amazzonia e nel deserto del Kalahari, è Viviano Domenici, ex giornalista delCorriere della Sera. Il prossimo 29 aprile uscirà un suo libro, intitolato Uomini nelle gabbie (Il Saggiatore). È una storia che ripercorre l’approccio dei bianchi nei confronti di neri, rossi e gialli. «In totale sono stati tra 35 e 40 mila i “selvaggi” esibiti nelle gabbie nei nostri Paesi “civili”, spesso come grande attrazione negli Expo. È vero che la relazione tra conservazione della natura e indigeni è un tema molto complesso, ma c’è un punto dal quale non possiamo prescindere, mai: la foresta appartiene a loro. Questi popoli non sono mai venuti nel nostro mondo a dirci cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non ci hanno nemmeno mai chiesto di essere aiutati o salvati». Se mai, nelle foreste, o comunque in mezzo allawilderness che tanto ci attira, siamo noi che dobbiamo essere salvati da loro, come è accaduto più volte. «Dopo l’uso delle armi», ha detto una volta un indigeno, «il modo più sicuro per ucciderci tutti è quello di separarci dalla nostra terra». Molti anni fa, Vine Victor Deloria jr., scrittore e storico nativo americano, ha osservato che «uno dei più grandi problemi indiani è stato quello dei missionari. Si dice che, quando arrivarono, loro avevano la Bibbia e noi la terra: ora noi abbiamo la Bibbia e loro la terra». La situazione da allora, se possibile, è ancora peggiorata. Con buona pace della Natura, forse anche quella umana.
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