Il traguardo, nella giornata mondiale dedicata all’acqua, si intravede sotto un diluvio torrenziale. Dopo due settimane di cammino, si è conclusa ieri a Quito la marcia indigena per l’acqua, la vita e la dignità dei popoli, iniziata l’otto marzo dalla provincia amazzonica Zamora Chinchipe, 700 chilometri più a sud. La confederazione delle nazionalità indigene ecuadoriane (Conaie), in accordo con il Frente Popular, l’Asamblea de los pueblos del sur e altre realtà sociali del paese, ha lanciato un appello al governo perché riveda parte delle sue politiche agricole ed economiche. E dopo un lungo percorso, qualche migliaio di indigeni ha raggiunto Quito da tutto il paese. Alcuni di loro, in abito tradizionale, portano il cellulare in una mano, la lancia nell’altra.
Il casus belli della dissidenza stavolta nasce dalla gestione della cosiddetta megaminiera su vasta scala progettata dal governo: cinque siti per l’estrazione delle risorse minerarie del paese, affidati a multinazionali canadesi e cinesi che godono di competenze e mezzi. Nel 2010 il presidente Rafael Correa aveva dichiarato: “Non possiamo essere dei mendicanti seduti su un sacco d’oro ed essere in condizioni di povertà, arretratezza e immobilismo. Dobbiamo sviluppare il potenziale estrattivo.” Detto, fatto. Le popolazioni indigene che abitano l’area interessata, soprattutto il sud est amazzonico, contestano lo scempio ambientale che provocherebbero le miniere a cielo aperto nella loro terra. L’annosa questione dell’anteporre la ragion di Stato all’interesse delle comunità locali potrebbe richiamare alla memoria degli italiani la val Susa e il movimento No Tav.
Tuttavia il potenziale politico degli indigeni in Ecuador, che pur rappresentano il 7% della popolazione del paese, ha una storia diversa: oltre le rivendicazioni territoriali, la Conaie ha saputo esercitare in passato tali pressioni da aver fatto cadere due governi (nel 1997 e 2000) e si è fatta portavoce di innumerevoli battaglie contro l’estrazione del petrolio, che ha causato danni ambientali irreparabili, e l’affidamento delle risorse alle multinazionali estere, spesso disinteressate alle esigenze del territorio. Pur avendo perso parte della propria influenza negli ultimi anni, a Correa ora gli indigeni chiedono l’approvazione delle leggi sulla redistribuzione delle terre e sulla gestione dell’acqua, iniziative promesse ma non ancora realizzate. Inoltre, resta il nodo storico della salvaguardia dell’identità indigena e il rispetto delle diverse “nazionalità” che la compongono: gli indigeni, in una società dai connotati ancora classisti, si trovano nel gradino più basso della scala sociale, e il destino di gran parte di loro è segnato dalla nascita. Alla marcia hanno partecipato anche ambientalisti, studenti e i partiti alla sinistra di Alianza País, il movimento di Correa. Due giorni fa al concerto allo stadio di Quito, anche Manu Chao e Residente Calle 13 si sono pronunciati contro la miniera. Il presidente tuttavia, in vista delle prossime elezioni e pur mantenendo più del 60% di consenso nei sondaggi, non ha voluto concedere ai suoi oppositori questa giornata di fine marcia. Mentre gli indigeni raggiungevano il parco El Arbolito, il centro storico della città era invaso da sostenitori del governo, chiamati a confermare il loro sostegno alla “revolución ciudadana”. Numericamente superiori, i filogovernativi erano organizzati in pullman partiti dai quattro angoli del paese grazie anche ai contributi dei funzionari statali, tassati di qualche decina di dollari per sostenere l’organizzazione della manifestazione. Garantito per loro il pasto caldo e le bevande, le t-shirt e magari una stretta di mano. Tutti gli impiegati statali quiteñi sono stati precettati per un pomeriggio di manifestazione, utili ad ingrossare la massa in sostegno a Correa. “Siamo qui per difendere il nostro presidente e la nostra rivoluzione socialista”, spiega uno dei sostenitori poco prima che il presidente parli. Dal palco Correa elenca, dati alla mano, i risultati raggiunti in cinque anni di governo nei temi sociali, educazione e salute in primis, nella crescita economica, nella “rivoluzione agraria” e nella sovranità nazionale. Sicuro del proprio potere, chiama i partecipanti alla marcia indigena “destabilizzatori, golpisti”. Dall’altra piazza, rimandano al mittente. “Non lo siamo”, dichiara dal palco Humberto Cholango, presidente della Conaie “siamo la democrazia che chiede di essere ascoltata”. Nonostante il diluvio, gli interventi continuano. “Questa pioggia è meravigliosa”, inizia il suo discorso Delfín Tenesaca, rappresentante delle comunità kichwa. L’attaccamento alla terra è evidente nelle loro parole, nella semplicità dei giochi dei bambini, nei mazzi di erbe e foglie che alcune donne hanno portato fino alla città, per ribadire la loro appartenenza al territorio e alla “Pachamama”, la madre terra.
In serata, una delegazione di manifestanti viene ricevuta dal presidente dell’Assemblea Nazionale Fernando Cordero, dopo momenti di tensione e qualche tafferuglio che riporta il ferimento di quattro poliziotti causato dalle lance degli indigeni. Avanzate le loro richieste, gli indigeni hanno ricevuto da Cordero la promessa che l’esecutivo si occuperà delle loro istanze, forse con un referendum prelegislativo riguardante la legge per l’acqua. Sulle miniere invece la trattativa non ha successo, perché sul tema le divergenze siano insanabili. Durante la lunga giornata di mobilitazione, in una manifestazione come nell’altra, i partecipanti indossano i ponchos impermeabili venduti a un dollaro e alzano bandiere di Che Guevara, idolo di quella che per entrambe le parti è una giusta causa. In quella confusione pioggia, odori e suoni della città si confondono. Le uniche differenze sono le idee. E a ben guardare anche le scarpe, che gli indigeni amazzonici in costume tradizionale non indossano, camminando mezzi nudi sotto la pioggia, senza paura.
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