Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. La poesia di Giuseppe Ungaretti, formata da un unico memorabile verso, non è più immortale. Al culmine di questa estate africana, il poeta che nacque in riva al Nilo è improvvisamente invecchiato in riva al Po: il cambiamento climatico lo ha reso datato. A Torino, infatti, dal principio di agosto i viali alberati sono ricoperti da un tappeto di foglie secche autunnali. La prolungata siccità primaverile, sommata alla straordinaria canicola estiva, ha disseccato le piante fino a castigarle con un autunno anticipato. Pare che a soffrire siano soprattutto i platani. I platani e i tigli.
Di questo passo, nessuno di noi, all’alba di questo nuovo secolo, potrà più esprimere la precarietà esistenziale della condizione umana immortalata da Ungaretti, all’alba del secolo scorso, tra le trincee della Prima guerra mondiale, con la similitudine pregnante che equipara i soldati alle foglie autunnali.
Adesso, da queste parti, sotto questi cieli roventi, le foglie pencolano incerte, precarie, dai rami dei platani anche ad agosto, oppure, v’insistono, complici estati prolungate, fino a dicembre e oltre.
Eppure - anche se non ci sono più gli autunni di una volta - una similitudine resta. Per notarla, però, bisogna aguzzare lo sguardo. Se l’apocalisse vissuta dalla generazione di Ungaretti fu madornale e letteralmente esplosiva, quella toccata in sorte a noi, si manifesta, al contrario, per piccoli segni. Per scorgerla dobbiamo notare i tigli sfrondati, la crepa che si apre sul letto dei fiumi in secca, la rosa ancora fiorita a fine novembre sul nostro balcone settentrionale. Dobbiamo notare le zanzare che proliferano fuori stagione nei nostri modesti giardini, i contadini che piantano la vita a quote sempre più elevate, le specie ittiche tropicali che risalgono il corso dei nostri fiumi.
Il cambiamento climatico è una realtà catastrofica già in atto, riguarda il nostro presente non solo il nostro futuro. Il mutamento è qui, adesso. E non è più soltanto una verità scientifica, dedotta da modelli statistici e calcoli astratti. E’, invece, una evidenza quotidiana ben calata nella base sensibile della nostra esperienza personale. Nonostante tutto ciò, fatichiamo ancora ad assumerne fino in fondo la consapevolezza. Perfino quando il cambiamento climatico si manifesta con eventi letteralmente catastrofici - inondazioni, tempeste, migrazioni di popoli - viene quasi sempre e quasi subito riassorbito nell’ombra delle cose più vicine. Si sottrae alla nostra piena coscienza, elude quel combattivo senso di responsabilità che potrebbe spingerci ad affrontarlo con determinazione e coraggio, perché, a differenza della tragedia che travolse la generazione di Giuseppe Ungaretti, ci giunge come una sorta di catastrofe al rallentatore.
La Storia - che pure stiamo vivendo - non si manifesta mai a noi come la sassata che una mattina manda in frantumi i vetri della tua finestra. Sì, il problema è questo: le tragedie epocali non mancano, anche le epopee altrui di popoli in marcia ci riguardano ma oramai ci difetta il sentimento tragico ed epico degli accadimenti che ci consenta di vederle, di capirle, di esserne all’altezza.
Nell’augurare a tutti i lettori de «La Stampa» un sereno Ferragosto, mi auguro anche che tutti insieme si reimpari a vedere nelle foglie dei platani che ingombrano in piena estate i viali di Torino il senso di un comune destino.
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