Le metropoli hanno cominciato a svilupparsi in Occidente in conseguenza di quell’assetto organizzativo che il sistema capitalistico si è dato a seguito dello sviluppo nell’Ottocento della seconda rivoluzione industriale. E nel Novecento hanno continuato il loro processo di sviluppo, estendendo progressivamente la loro espansione alle altre zone del Pianeta. Infatti, se nell’anno 1900 le città con oltre un milione di abitanti erano 11, oggi sono più di 400.
La crescente “metropolizzazione” della società ha innanzitutto comportato per gli individui un’esperienza di disorientamento. Già nell’Ottocento, infatti, si è presentato un aumento della mobilità geografica e sociale delle persone, in quanto larghi strati di popolazione rurale si sono recati per la prima volta a vivere nelle nascenti grandi città. Le quali si sono gonfiate così enormemente, creando in misura crescente un mondo di estranei. Un mondo inoltre dove i modelli di comportamento e di vita dei soggetti non erano più correlati ai ritmi umani e naturali dell’esistenza comunitaria, ma dovevano invece sintonizzarsi con i ritmi accelerati dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e delle merci.
Pertanto Georg Simmel, già all’inizio del Novecento, ha potuto affermare nel saggio Le metropoli e la vita dello spirito che l’esperienza metropolitana è caratterizzata da una «intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori» (p. 36). Gli individui per difendersi dalla nuova «tempesta emozionale» hanno cominciato ad adottare una strategia di «raffreddamento» dei rapporti sociali. Da ciò è derivato, secondo lo stesso Simmel, quell’atteggiamento di distacco che è tipico del soggetto che vive nella condizione metropolitana. E che si sviluppa proprio come una forma di reazione all’incapacità di reagire ai nuovi stimoli e alle richieste e alle aspettative degli altri.
Lo sviluppo delle metropoli negli ultimi decenni è stato possibile anche perché si è determinato un progressivo declino del centro della città storica, con una conseguente fuga degli abitanti da tale centro. Il centro storico si è addirittura decomposto sul piano fisico, estendendosi progressivamente nell’ambiente circostante e dando vita ad agglomerati urbani informi e alla nuova realtà della “metropoli diffusa”. Il risultato di tutto ciò è stato un enorme processo di sviluppo della città sul suo territorio. Negli Stati Uniti, ad esempio, una persona su due vive oggi nella periferia suburbana. E in Italia, poco a Nord di Milano, in un territorio che si trova tra l’aeroporto di Malpensa e quello di Orio al Serio, vivono quasi cinque milioni di abitanti e circa 500.000 imprese.
È andato perciò in crisi quel modello di città che è stato perseguito in passato dalla cultura europea, razionalmente progettato in tutti i particolari a partire da un centro che contiene dei monumenti in grado di simboleggiare l’autorità religiosa e quella civile e che costituisce il vertice di una piramide che distingue nettamente e gerarchizza le diverse zone urbane: centro, periferia residenziale, zone industriali, ecc. Il centro città tende invece oggi a indebolire il suo ruolo, mentre la periferia diventa per gli individui il nuovo polo di elaborazione dell’identità, la quale non dipende dall’importanza dei monumenti e della storia che ci si è lasciati alle spalle, ma dalla vita e dai rapporti sociali che i luoghi consentono di praticare.
Il modello che appare sempre più vincente è perciò quello che l’architetto Rem Koolhaas ha chiamato «junkspace». Si tratta di una realtà urbana sviluppatasi senza un progetto, costruita autonomamente e spesso caratterizzata da una situazione di totale abusivismo. In metropoli ad esempio come Città del Messico, Rio de Janeiro, Tokyo, Los Angeles, a fianco di una ristretta élite che vive in condizioni di agiatezza, abita una moltitudine di persone che si sono mosse dalla campagna con la speranza di trovare delle migliori condizioni di vita, ma che hanno incontrato invece molte difficoltà e hanno potuto soltanto ottenere di sopravvivere all’interno di enormi agglomerati di cartone e lamiera. Secondo le stime delle analisi effettuate dalle Nazioni Unite, si tratta complessivamente di più di un miliardo di persone, che dovrebbero diventare due miliardi entro il 2030 e tre miliardi entro il 2050.
Sebbene la cultura occidentale abbia solitamente la tendenza a considerare queste aree abitative come marginali, precarie e destinate rapidamente alla scomparsa, esse costituiscono oggi una realtà fondamentale della vita metropolitana. Anche perché spesso non sono sinonimo di una condizione abitativa temporanea, ma, al contrario, configurano una condizione duratura, in quanto l’alloggio abusivo, per chi ci vive, è il massimo possibile e rappresenta comunque un miglioramento del comfort di vita rispetto al passato.
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