Bene ha fatto Tonino Perna a collocare la tragedia che ha colpito la Sardegna nel contesto ecologico di medio-lungo periodo divenuto sempre più insostenibile e necessitante quindi di una inversione di rotta radicale. Poiché il diritto è l’istituzione attraverso la quale una collettività prende le proprie decisioni, qualsiasi declamazione politica mostra la sua coerenza soltanto se mette mano al diritto dei beni (ossia dei rapporti che legano l’individuo al territorio e agli «arredi del mondo»). In quest’ambito l’ipocrisia di Enrico Letta diventa davvero intollerabile, perché mentre recita il miserere, stanzia una cifra del tutto ridicola per il territorio Sardo (20 milioni di Euro, qualche decina di metri di Tav), si lascia andare a proclami irresponsabili sulla necessità della Torino-Lione (dispiacendosi per di più che le sue forze del disordine impediscano con la violenza ogni manifestazione di dissenso e l’accesso a un bene comune come Piazza Farnese), e colloca in vendita alcuni interessi strategici del paese, mostrando nei fatti la sua rinuncia ai mezzi economici per esercitare qualunque tipo di sovranità territoriale.
Proprio quest’ultima vicenda è emblematica. Da molti anni ormai una parte importante della nostra cultura giuridica ed economica (il volume Invertire la la rotta esce per Il Mulino nel 2007) mostra l’insostenibilità dello sbilanciamento costituzionale che consente al governo in carica di privatizzare beni pubblici e comuni alienandoli e distruggendoli (vedi paesaggio in Val Susa) come se fossero di sua proprietà privata, senza dover dimostrare la pubblica utilità, e senza dover indennizzare il popolo sovrano che viceversa ne è formalmente proprietario. Tale comportamento di vero e proprio saccheggio legalizzato dei beni appartenenti al popolo sovrano tradito (che si lamenta con l’astensione) non solo legittima ogni tipo di resistenza, ma mostra pure lo strumentario giuridico con cui esso viene realizzato, che essendo tecnico consente operazioni non agevolmente comprensibili.
Innanzitutto deve essere chiaro che la forma «società per azioni» facilita l’alienazione a fini di speculazione e dunque la mercificazione di brevissimo periodo di ogni interesse. Gli agognati 12 miliardi del pacchetto di privatizzazioni (ma voglio mettere agli atti che se ne realizzerà molto meno della metà) proverranno da «semplici» trasferimenti di pacchetti azionari di società ad azionariato pubblico (Mef e Cdp), confermando che la privatizzazione della forma è già anche privatizzazione della sostanza. I tanti sindaci contro-riformisti che in questa forma vogliono continuare a gestire i servizi pubblici (acqua, trasporti, spazzatura) mentono quando sostengono che una Spa col 100% di azioni del Comune è comunque un ente pubblico di gestione. Il profitto di breve periodo e la facile alienabilità delle azioni sono nel Dna della Spa, sicché la trasformazione formale è inevitabilmente prodromica alla svendita di pacchetti azionari sufficienti al controllo in capo a interessi privati con vocazione «estrattiva».
Oltre alla struttura societaria (antichissima), anche quella del demanio e del patrimonio indisponibile (a loro volta antiche) sono responsabili della situazione di mal governo del territorio e dei beni pubblici e comuni. In Italia le regole del demanio sono le stesse che aveva a disposizione l’amministrazione napoleonica. Esse producono un misto di burocratismo, formalismo ed arbitrio della Pubblica Amministrazione che spiega in gran parte l’impopolarità del settore pubblico percepito come incapace e corrotto. Infatti, sovente i funzionari degli «uffici pubblici» leggono le norme giuridiche come se si trattasse di istruzioni per montare un boiler che bisogna seguire alla lettera per paura di possibili esplosioni. La paura degli occhiuti controlli della Corte dei Conti (a sua volta sovente portatrice di una cultura formalistica) accompagnata all’incapacità generale di interpretazioni del diritto «costituzionalmente orientate» (che pure sono doverose) rendono ben difficile misurarsi giuridicamente con la sfida epocale di cui parlava Perna.
Infine un ruolo drammatico nel formalizzare uno status quo insostenibile svolge la proprietà privata. Anche qui le ragioni sono in parte legate agli sbilanciati rapporti fra pubblico e privato favorevoli a quest’ultimo, in parte alla resa prima di tutto culturale della dottrina giuridica e della giurisprudenza di fronte alle prepotenze neoliberiste che arrivano dalle Corti di Bruxelles e di Strasburgo (purtroppo anche Nizza\Lisbona non vanno nella direzione sperata da nostri autorevoli teorici dei diritti). La proprietà privata oggi, sia essa in capo a persone fisiche che giuridiche, riceve una tutela assoluta ed indipendente dalla sua funzione sociale, che pur ancora vige nell’Art. 42 Costituzione. La sua natura «estrattiva» e di rendita anche parassitaria è fortemente accettata dal comune sentire. Per questo casi emblematici come il grattacielo sottratto a Macao dall’asse Cancellieri\Ligresti o il Colorificio Liberato a Pisa dove si è restaurata con la forza la proprietà estrattiva contro quella generativa realizzata dal Municipio dei beni comuni non hanno ancora prodotto il moto di indignazione sperato.
In questo quadro di complicità dei sindaci rispetto alla restaurazione neoliberista seguita al referendum del 2011 che appunto chiedeva di invertire la rotta, in attesa di vedere che cosa riuscirà a fare Accorinti, sento il dovere di segnalare il lavoro contro-corrente di De Magistris. Eleganza mi induce ad accennare appena al completamento della della trasformazione di Abc (che mai più potrà esser venduta o data in pegno alle Banche), la sua eccellente condizione di sostenibilità economica attuale, e i passi significativi nel maggior coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti nel governo dell’acqua bene comune. Il caso dell’acqua di Napoli resta unico in Italia, è ammirato in tutta Europa ma quotidianamente si misura con la necessità di dare coraggiose letture costituzionalmente orientate alla fiumana di diritto contro-riformista che si abbatte contro questo unico esempio nazionale di cristallina coerenza con la volontà del popolo espressa nel referendum.
La giunta De Magistris sta per approvare altre due rivoluzionarie delibere, preparate dall’Osservatorio Permanente sui Beni Comuni già istituito con sue delibere del giugno 2013 in attuazione dello Statuto Comunale di Napoli che contiene la definizione di beni comuni della Commissione Rodotà. L’osservatorio presieduto da Alberto Lucarelli e composto da autorevoli esponenti della cultura napoletana, propone il rientro di proprietà tanto private quanto pubbliche attualmente abbandonate fra i beni comuni dei napoletani, con successivo loro governo istituzionale partecipato ed inclusivo come già avviene tanto per l’ex Asilo Filangieri quanto per Abc. Le delibere sono assai ben fondata tanto in leggi ordinarie (in particolare Art 838 Codice Civile, 113 Tuel) lette in modo costituzionalmente orientato, quanto nella Costituzione (Artt. 3, 41,42, 43, 44) come era scontato fosse data l’autorevolezza dei giuristi dell’ Osservatorio Permanente (Maddalena, Moccia, De Giovanni). Esse tracciano una procedura di riacquisizione ai beni comuni di proprietà private che non rispettano la funzione sociale (l’esempio Pisano del Colorificio era ben presente ai redattori) e costituiscono quella vera rivoluzione culturale negli assetti proprietari che, se estesa a tutto il territorio nazionale, consentirà davvero di «invertire la rotta» nel senso auspicato da Perna. Se a ciò aggiungiamo il ruolo di promotore di una nuova Associazione nazionale fra i gestori pubblici di servizi di interesse generale denominata Federcommons assunto da Abc Napoli, ecco che la coraggiosa coerenza con la «rivoluzione arancione» delle politiche poste in essere pur fra mille difficoltà dalla giunta di Napoli fa vergogna a chi ha già tradito quel sogno. Ed ecco spiegato il perché gruppi editoriali legati al partito contro-riformista, che ospitano abbondante pubblicità dell’acqua minerale insieme a pseudo-intellettuali di varia natura, attacchino oggi Napoli. Solo il capoluogo partenopeo sta dimostrando nei fatti che la rivoluzione dei beni comuni è possibile. Copia Napoli e il saccheggio muore!
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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