Uno sciopero del maggior sindacato di polizia nella città argentina di Cordoba ha svegliato ieri l’altro il fantasma del caos. La mancanza di autorità nel secondo centro del Paese, ha infatti dato vita a 14 ore di scorribande, in cui orde di ragazzini con le Adidas tarocche e i piercing fluorescenti alle guance, sono usciti dalle baraccopoli a bordo dei loro motorini 125, e hanno saccheggiato qualsiasi esercizio commerciale arrivasse a portata, sparando, quando necessario, al cielo, ai negozianti e ai residenti auto-organizzati, che pattugliavano i quartieri con lo schioppo del nonno.
Mentre un accordo salariale express, firmato all’alba dalle forze dell’ordine, ha rimesso in circolazione le pattuglie e con loro anche quella che i cronisti televisivi continuano a chiamare una «calma tesa sulla città», si tirano ora le somme del giorno dopo, sui cocci rimasti al suolo. Più di mille negozi distrutti, auto incendiate, supermercati cinesi sventrati e decine di birre perse e spaccate nella fuga, fanno da corollario a una notte in cui si dice che «solo per miracolo» sia morta un’unica persona, ne siano state ferite 250 e arrestate 52. La vittima, di cui non è stato diffuso il nome, aveva vent’anni ed è arrivata in ospedale con un colpo di pistola all’addome. Accompagnavano il ragazzo alcuni amici in abiti sportivi, fuggiti subito dopo aver scaricato lui e un altro coetaneo al pronto soccorso, che a sua volta se l’è data a gambe non appena si è visto bendare le ferite analoghe a quelle del compagno, ma per fortuna solo di striscio.
Cordoba, che nel maggio del ’69 fu teatro delle leggendarie proteste degli operai della Fiat Concord, torna dopo quasi mezzo secolo ad essere battuta dal tumulto, anche se con personaggi dal profilo sociale molto diverso. La polizia, che all’epoca tentò inutilmente di reprimere la rivolta dei metalmeccanici, dando inizio con la sua sconfitta alla caduta della dittatura militare di Juan Carlos Ongania, oggi abbandona il ruolo di fido scudiero ed alza il capo contro lo Stato, per passare da 300 a 600 euro al mese circa.
I rivoltosi, invece, non sono proletari, non sono sindacalizzati e in molti casi non sono nemmeno scolarizzati: sono i figli di generazioni di esclusi, per lo più contadini immigrati nelle periferie urbane (perché cacciati dalla sfruttamento intensivo delle terre d’origine), che hanno imparato a vivere la loro condizione di sottoproletari come un’appartenenza a tutto tondo: musica (la cumbia gangsta), abbigliamento (le tute di acetato), lessico (il gergo delle baraccopoli) e la continua agiografia banditesca, li inseriscono in una nazione che si sovrappone in certi punti, ma che resta in fondo diversa da quella a cui sentono di appartenere gli argentini che vivono al di sopra della soglia di povertà.
Così, il profilo dello sciacallo che ha scorrazzato per Cordoba l’altra sera, parla di un minorenne disoccupato, figlio di disoccupati, che è uscito dall’emergenza alimentare in questi almeno dieci anni di aumento del reddito pro capite, facendo lavoretti saltuari e restando all’interno del nucleo famigliare, ma che però non sente nessuno dei valori che potrebbero portarlo a superare l’abitudine di vivere alla giornata.
Per questo, nei saccheggi cordobesi sono stati rubati pochi alimenti, pochi beni di prima necessità e oggetti durevoli: il vino, il Fernet Branca e la birra Quilmes guidano le liste dei furti, insieme alle maglie di Messi, i pantaloni della nazionale, gli schermi al plasma e i profumi. Con loro, certo, è stato ripreso dalle telecamere che si sono avventurate nei barrios, anche qualche opportunista che ne ha approfittato per rifarsi l’arredamento, ma il cittadino medio, non ricco ma impiegato, è stato in generale quello che il giorno dopo piangeva sui resti della casa derubata o faceva la guardia all’isolato dopo una notte insonne.
Il caso, per ora rientrato, ha subito preso portata nazionale: in Argentina, ogni mese di dicembre da 10 anni a questa parte si scatenano infatti i saccheggi, si dice, grazie a una mano oscura che spunta dalle fila del peronismo di destra e tenta di riesumare la rivolta a cui portò la crisi del 2001, e col surrogato di questa far cadere il governo di Cristina Kirchner. Finora non c’è mai riuscito, ma di qui a Natale, la calma resterà inevitabilmente tesa in tutto il Paese.
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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