ROMA - Sabato scorso più di 10 mila persone si sono date appuntamento in 280 città del mondo - da Buenos Aires a Bangkok, da Roma a Johannesburg - per formare uno striscione umano con la scritta "I ♥ Arctic". E' stata la Giornata mondiale d'azione per l'Artico organizzata da Greenpeace alla vigilia dell'Earth Day per offrirne una chiave di lettura. Il 22 aprile del 1970 la prima Giornata della Terra aveva al centro la preoccupazione per l'inquinamento crescente: era la percezione di una minaccia ancora vaga, non ben distinta sia nella portata del rischio che nei tempi.
A distanza di 43 anni il quadro appare ben diverso all'opinione pubblica, anche se la politica fatica a registrare il cambiamento: il pericolo è estremamente concreto e immediato. Mentre nell'arco di questi decenni singole battaglie sono state vinte (dal piombo nella benzina alle piogge acide e alla difesa dell'ozono stratosferico) il rischio di un cambiamento climatico devastante, capace di inaridire le pianure fertili da cui dipende la vita di centinaia di milioni di persone e di minare l'equilibrio degli oceani, è diventato sempre più forte. Anche perché le emissioni serra, nonostante gli appelli, invece di diminuire continuano ad aumentare.
E così l'Artico si è trasformato da luogo dell'immaginario dell'avventura, in uno scenario politico drammatico. Dal 1979, epoca in cui i satelliti hanno cominciato a tenere la zona artica sotto attenta osservazione,
si è registrata una ritirata dei ghiacci del 12 per cento a decennio, con un'accelerazione negli ultimi anni. La parte di pack superstite si trova così esposta a maggiori sollecitazioni e il risultato è che la superficie coperta da ghiacci spessi e consolidati è oggi del 60 per cento inferiore a quella del 1981. L'esistenza della calotta artica, che fino a ieri sembrava un dato mutabile solo in ere geologiche, può essere spazzata via nell'arco di pochi decenni e le compagnie petrolifere già organizzano percorsi marini che attraversano il polo Nord, presto navigabile in assenza di un cambio di rotta.
Un cambio di rotta che non solo è possibile ma potrebbe avere ricadute positive sull'insieme dell'economia facendone ripartire il motore attraverso un new deal verde. Il parere della comunità scientifica è infatti ormai molto chiaro: per frenare il caos climatico bisogna tagliare drasticamente le emissioni serra prodotte dall'uso dei combustibili fossili e dalla deforestazione. E dunque la cura sta nella creazione di un'economia low carbon basata sull'efficienza, sulle fonti rinnovabili e sulla lotta contro gli sprechi.
Obiettivi raggiungibili solo se si parte subito: la finestra per un intervento utile si sta chiudendo. Con il rapporto del novembre scorso l'allarme è stato rilanciato dalla Banca Mondiale che ha parlato della possibilità di un aumento di temperatura globale di 4 gradi a fine secolo: sarebbe un colpo devastante per buona parte degli ecosistemi che garantiscono la sopravvivenza di miliardi di persone. "Non deve essere permesso che si verifichi", ha ammonito la World Bank.
Nella giornata dell'Earth Day vale la pena riflettere sul fatto che agli appelli degli ambientalisti si sono aggiunti quelli di istituzioni come la Banca Mondiale. O il Pentagono, che da già dieci anni fa preparò un rapporto sul rischio di conflitti locali e di guerre causati dalle migrazioni causate dal caos climatico.
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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