RIO DE JANEIRO — Una città senza Stato, senza politici, con poche tasse e tutte locali. Con la proprie leggi, giustizia, polizia, economia e rapporti con l’estero. Non autonoma o indipendente, ma di più: una città privata. Che ricominci da zero, non importa quanto sottosviluppato, corrotto o violento sia il territorio dove sorgerà. Come per esempio, l’Honduras, il Paese che ha deciso di inventarla. La prima metropoli «modello » — questo l’eufemismo — pare proprio che sorgerà sulla costa pacifica di questo piccola nazione centroamericana, che prima si è dotata di una legge quadro costituzionale e ora ha trovato anche chi metterà i soldi. La firma tra il governo e la Mkg, una società immobiliare americana, è di questa settimana. Ha suscitato curiosità e polemiche: in Honduras un gruppo di giuristi ha chiesto che la Corte suprema bocci il progetto. Perché la privatizzazione di una parte del territorio non è accettabile, così come l’extraterritorialità su materie di competenze dello Stato. Sul piatto, ovviamente, ci sono molti soldi e promesse di lavoro per tutti. Michael Strong, della Mkg, parla di 5.000 posti diretti e 15.000 indiretti per la costruzione.
Leggi anche: Agreement for a Model City (http://hondurasculturepolitics.blogspot.it/2012/09/agreement-for-model-city.html)
La Corea del Sud è pronta a investire 8 miliardi di dollari. E con enfasi Strong parla di «una delle più audaci trasformazioni al mondo, grazie alla quale l’Honduras metterà fine alla povertà » perché alla prima città privata ne seguiranno almeno altre due, e poi altri Paesi del mondo vorranno replicare l’esperienza. Gli abitanti, dice, arriveranno insieme all’industria e ai servizi. Pian piano sarà una città come tutte le altre, con ristoranti, alberghi, chiese, scuole e ospedali. Ma con una differenza, rispetto alle new town tradizionali. La città sarà sin dall’inizio gestita da una specie di consiglio di amministrazione di nove membri, composto di «rispettabili figure internazionali senza interessi finanziari» e da un governatore da loro nominato. In seguito la parola verrà data agli abitanti, con il voto. La legge honduregna continuerà a valere, ma relativamente. Il codice penale, per esempio. L’emissione di passaporti e le regolemigratorie. Gli abitanti continueranno ad avere diritti elettorali nel Paese. Ordine pubblico, regole fiscali ed economiche saranno invece completamente gestiti in proprio, senza interferenze.
Il Parlamento dovrà solo approvarle al momento della promulgazione. Chiunque potrà andare a vivere nelle città private, assicurano, non saranno enclave per ricchi circondate da favelas —di queste l’America Latina è ricca— e tutti potranno entrare e uscire senza limitazioni. È importante, dicono i teorici del progetto, che le città sorgano vicino al mare, perché la prossimità dei porti permette di avere un interscambio autonomo con l’estero. Quando l’Honduras, lo scorso anno, si diede una legge quadro per creare le «regioni speciali di sviluppo » sul proprio territorio si pensò a qualcosa di meno fantasioso: aree a regime fiscale speciale, zone franche, come ce ne sono tante nel mondo. Il governo di Porfirio Lobo, il presidente, sembra invece essersi innamorato delle audaci idee di un economista americano, Paul Romer, il teorico delle charter cities. Romer sostiene che partire da zero è meglio che cercare di adattare il nuovo all’esistente e alle sue resistenze. E indica il cammino soprattutto per i Paesi poveri, per attrarre una popolazione motivata al nuovo e impedire che fugga verso l’estero. Mentre l’impresa americana assicura che i lavori inizieranno nel giro di pochi mesi, e la prima città modello vedrà la luce a breve vicino a Puerto Castilla, sulla costa caraibica, gli ostacoli non sono pochi.
Il Congresso deve approvare l’accordo, e poi toccherà alla Corte suprema esaminare i ricorsi. Poi c’è la delicata questione degli indios Garifuna, che vivono in quella regione e sostengono che la città verrà costruita nel loro territorio. Le organizzazioni di diritti umani parlano di un ritorno al passato, quando l’Honduras era considerato una repubblica delle banane, privatizzato dalle multinazionali del settore.
Kikukula è una città ugandese. In Uganda, come in altre regioni africane, grandi multinazionali occidentali e non solo stanno acquistando terreni agricoli, cacciano le popolazioni che vi abitano e promuovono forme di business completamente estranee alle culture economiche locali. Il territorio ancora oggi come scenario di sfruttamento, competizione e lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione.
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