Una Terra per tutti – l’ultimo rapporto al Club di Roma, uscito cinquant’anni dopo il primo, rivoluzionario, The Limits to Growth – è una raccolta di contributi di autorevoli scienziati, economisti ed esperti di ecologia. Andrebbe diffuso ai quattro angoli del Pianeta per creare consapevolezza sulle devastazioni che infliggiamo alla Terra a causa del modello oggi prevalente di produrre e consumare. Un modello fallimentare anche sul piano sociale e all’origine di inaccettabili disuguaglianze dentro i singoli popoli, e tra i diversi popoli.
E se anche è vero che questi rapporti appartengono ormai a un genere consolidato di pubblicazioni, ciò che rende unico Una Terra per tutti, oltre alle diverse competenze complementari di autori ed autrici, è l’inedita exit strategy dall’emergenza climatica e sociale che delinea.
Per Europa Verde ho contribuito alla conoscenza del volume organizzando una presentazione a Bologna, alla quale hanno portato il proprio contributo il professor Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, fondatore di Energia per l’Italia e membro del comitato scientifico di Europa Verde, e Gianfranco Bologna, direttore scientifico e Senior Advisor del Wwf Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. I loro interventi hanno confermato che Una terra per tutti è lo studio più completo sulla necessità di cambiare l’attuale sistema economico e sociale: da un capitalismo di “rapina” per pochi a una prosperità equilibrata che non lasci indietro nessuno.
Il cambiamento da mettere in campo è declinato dal rapporto in cinque grandi sfide: lotta alle povertà; lotta alle disuguaglianze per ridurre la crescente forbice tra chi ha tanto e chi ha niente; transizione energetica verso un sistema elettrico alimentato da fonti rinnovabili; parità di genere ed empowerment delle donne; cambiamento del sistema alimentare per una produzione di cibo sana per l’ambiente e per l’uomo.
Quello che si propone è dunque un radicale cambio di paradigma perché, se per economia intendiamo il bene delle persone e dell’ambiente, l’attuale modello è con tutta evidenza diseconomico. Come aveva già evidenziato il pioneristico The Limits to Growth – che sovvertiva il dogma della crescita illimitata alla base dell’idea novecentesca di economia – in un Pianeta finito le risorse non rinnovabili sono finite. E come tali vanno gestite, se vogliamo garantire una vita dignitosa per tutti ed evitare il collasso ecosistemico del Pianeta.
L’importanza di questo rapporto è ben sintetizzata dalle parole di Vanessa Nakate, la nota attivista africana, fondatrice del movimento Rise Up, che forse ricorderete assieme a Greta Thunberg in uno dei tanti inconcludenti vertici globali sul clima. Ha scritto Vanessa: “Le idee esplorate in questo libro dovrebbero essere discusse in tutti i parlamenti del mondo. Dobbiamo cambiare le nostre economie in modo da cominciare ad anteporre le persone al profitto e abbiamo bisogno che i ricchi, gli inquinatori, paghino la loro parte per i danni che la crisi climatica sta scatenando sulle comunità povere in tutto il mondo. È ormai giunto il momento di creare un mondo più giusto e equo per tutti”.
La grande tragedia odierna è che, in risposta all’accelerazione della crisi climatica e agli allarmi lanciati dagli scienziati sulle conseguenze, anche sociali, del riscaldamento globale, a prevalere sono una sostanziale inazione della politica (vedi le Conferenze Onu sul clima dopo quella di Parigi) e l’inerzia del “continuare a fare come si è sempre fatto”. Mentre Una terra per tutti ci dice chiaramente che il decennio 2020-2030 è l’ultima occasione che abbiamo per invertire la rotta prima che il cambiamento climatico sfugga dal nostro controllo. Ce lo dice anche il climate clock, l’orologio climatico che, grazie a Europa Verde, è stato caricato sulla home page del sito dell’Assemblea legislativa Emilia-Romagna e che presto apparirà su un display all’ingresso degli uffici regionali: abbiamo poco più di sei anni per evitare il baratro.
Infine, una nota a margine. Il titolo del primo rapporto al Club di Roma è stato tradotto maldestramente con I limiti dello sviluppo (mentre il titolo corretto era “I limiti alla crescita”) implicando, in una lettura altrettanto sbagliata, che si volesse bloccare un democratico accesso generalizzato al benessere. Mentre quel testo evidenziava che, a quel passo di consumo di risorse non rinnovabili e di incremento demografico, l’economia sarebbe collassata per esaurimento delle risorse naturali disponibili.
Mi sono spesso chiesta se vengano (anche) da lì le critiche agli ecologisti di essere dei radical chic. Sta di fatto che già in quel primo rapporto erano chiare le contraddizioni di un sistema che ci ha portato a poco più di sei anni di distanza dal punto di non ritorno. Scrive in proposito Bill McKibben, autore di The End of Nature e di Eaarth: “Se nel 1972 avessimo prestato attenzione a The Limits to Growth non saremmo nella situazione in cui ci troviamo oggi. Ciò che resta di questo decennio potrebbe essere la nostra ultima opportunità di procedere, almeno in parte, nel modo giusto”.
Più che dibattere sulle parole, sarebbe stato più utile guardare la luna e non il dito. Abbiamo sei anni per recuperare.
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