L’Italia è il paese che possiede la più antica e consolidata tradizione giuridica nel campo della tutela e della valorizzazione del Patrimonio culturale, una tradizione che risale ai primi editti dello Stato Pontificio, del ‘400, ed arriva al D.L 42 del 2004.
La valorizzazione ha, però, assunto un valore particolare a partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione, voluta e fatta approvare dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001. La modifica ha attribuito, fra le tante altre cose, potere legislativo concorrente tra Stato e Regioni in materia di valorizzazione del Patrimonio culturale.
Le attuali richieste di “autonomia differenziata” avanzate dalle tre regioni -Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna- sono la conseguenza diretta di quella sciagurata modifica fatta dal governo Amato. Le tre Regioni hanno chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.
«Quale artista non ha provato in Italia quella virtù armonica tra tutti gli oggetti delle arti e il cielo che li illumina; e il paese che serve loro quasi da sfondo… Il vero museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti d’ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, etc. etc. ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni della città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni fra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso», come scriveva Quatremère de Quincy nelle sue lettere (II e IV) a Francisco de Miranda, nel 1796.
Il filosofo e archeologo francese, già alla fine del ‘700, aveva elaborato il concetto di contesto storico ed artistico di cui l’Italia, tutta intera, era l’esempio più evidente e fulgido. Un contesto unitario che, ora, viene messo in discussione.
Nella Bozza di pre-intesa, già stipulata fra Veneto e attuale governo, all’art.46 si legge che «alla Regione sono attribuite la potestà legislativa e le funzioni amministrative in materia di valorizzazione dei seguenti istituti e luoghi della cultura appartenenti allo Stato e dei beni culturali ivi presenti ». Al comma 6 dell’art. 46 si aggiunge la velenosa ciliegina «al fine di assicurare l’esercizio delle funzioni di cui ai commi precedenti sono trasferite alla Regione Veneto le funzioni esercitate dalle Soprintendenze ABAP e della Soprintendenza archivistica e bibliografica con le attribuzioni delle relative risorse umane, finanziarie e strumentali».
Riguardo al paesaggi, il Veneto pretende, vedi art. 47 commi 1 e 2 della bozza, la potestà legislativa e amministrativa sui piani paesaggistici, sui vincoli vecchi e nuovi attribuendosi «le correlate funzioni delle Soprintendenze in materie di paesaggio presenti sul territorio regionale, con l’attribuzione delle relative risorse umane, finanziarie e strumentali».
La Lombardia, invece di perdersi in troppe chiacchiere sui beni culturali e sui paesaggi ha chiesto – ed ottenuto all’articolo 33 della pre-intesa con Conte- tutta l’autonomia che potesse desiderare sul governo del territorio, facendosi attribuire tutte le competenze legislative e amministrative che erano, finora, dello Stato.
Le richieste dell’Emilia-Romagna sono meno radicali, ma ricalcano, in buona sostanza, quelle delle altre due Regioni.
Non è un caso che proprio le tre regioni secessioniste siano fra quelle che non hanno predisposto gli obbligatori piani paesaggistici regionali. Per sovrapprezzo, se si analizza l’ultimo rapporto dell’Ispra, si scopre che il consumo di suolo medio in Italia è del 7,63, ma la percentuale più alta è in Lombardia, con il 12,99%, seguita dal Veneto, con il 12,35%, e, ai primi posti, anche l’Emilia-Romagna, con il 9,99%. Le Regioni che consumano la maggiore quantità di suolo, insomma, vogliono avere la libertà di cementificare a loro piacimento, senza alcun controllo da parte di quelli che, finora, erano, organi periferici dello Stato, le Soprintendenze.
Il Bel Paese verrebbe frantumato, e perderebbe definitivamente «…quella virtù armonica tra tutti gli oggetti delle arti e il cielo che li illumina…» cantata da Quatremère de Quincy.
A distanza di quasi 50 anni dall’istituzione delle Regioni possiamo affermare che esse non solo non hanno funzionato perché non sono legate alla storia democratica della nostra Penisola, le ultime regiones sono quelle di Augusto, e perché sono diventate carrozzoni clientelari, inefficienti ed autocentrati, ma, ora, vogliono spezzettarlo di nuovo. Dobbiamo, invece, dare maggiore autonomia alle nostre antiche città, ai Comuni, affinché i cittadini riacquisiscano il loro plurimillenario e democratico diritto alle città.
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