ROMA - La grande ricchezza a Roma è invisibile. Sterminata e arrogante,
ma senza faccia. Un giorno la società Gemma di Renzo Rubeo che lavorava per il
Campidoglio contò 1.657 soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari.
Patrimoni straripanti, con nomi e cognomi ignoti ai più. In qualche caso, fatto
grave, anche agli uffici comunali. Angiola Armellini, per esempio aveva la
residenza a Montecarlo pur vivendo a Roma, dov’è proprietaria di 1.243
appartamenti sui quali, è l’accusa delle Fiamme gialle, non pagava l’Ici né
l’Imu. Suo padre Renato era uno dei padroni della città quando le giunte
democristiane nascevano e morivano a ogni starnuto dei palazzinari. E l’Imu
pura fantascienza.
Imposta che ha invece pagato Tommaso Addario: due milioni e mezzo nel 2012. Già alto
dirigente dell’Italcasse ai tempi di quel Giuseppe Arcaini travolto nel 1977
dallo scandalo dei finanziamenti a politici e imprenditori e marito della ex proprietaria
dell’impresa Vianini che fu acquistata da Francesco Gaetano Caltagirone, da
anni con la Tirrena immobiliare gestisce un immenso impero di mattoni.
Paragonabile, forse, a quello di Sergio Scarpellini, proprietario degli
immobili affittati alla Camera a prezzi da capogiro attraverso la società
Milano 90: la stessa cui fa capo anche una prestigiosa scuderia di 77 cavalli
da corsa con annesso allevamento di 94 puledri e 85 fra fattrici e stalloni. E
pazienza se le perdite del costoso passatempo corrono al ritmo di un
purosangue, tre milioni l’anno.
Un tempo, quando le palazzine a Roma venivano su più veloci dei grattacieli di Shangai, c’erano
pronti i soldi degli enti di previdenza. Con 600 miliardi l’anno da spendere
compravano tutto. Anche le schifezze che allagavano intere periferie. Finché
quei denari sono finiti e anziché comprare, Inps & soci hanno dovuto
vendere. Invece di continuare a tirare su palazzine, allora, c’è chi ha
cominciato a fare affari con la pubblica amministrazione, costruendo palazzi
per uffici o sedi istituzionali. Mentre altri imboccavano la strada della
rendita pura, mettendo a frutto proprietà divenute via via più gigantesche
grazie ai canoni versati loro dagli enti pubblici che gli permettevano di
comprare immobili senza tirar fuori un euro: pagando le rate dei mutui bancari
con gli assegni delle pigioni.
Chiunque abbia
intrattenuto rapporti non conflittuali con il
potere ha avuto la sua occasione, in una città nella quale il mercato degli
affitti passivi a spese dei contribuenti è di qualche centinaio di milioni
l’anno. Con il solo Comune arrivato nel
2011 a spenderne più di cento (come sottolineava il Corriere già nel giugno
2013). Di questi, tredici milioni e mezzo per affittare, pur avendo
sterminate proprietà immobiliari, gli stabili che ospitano i gruppi consiliari
(!) e le commissioni comunali (!). Presi in locazione, ha scritto tempo fa
il Giornale , dal solito Scarpellini: uno dei due è di proprietà
dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, che l’ha affittato
all’immobiliarista per 2,1 milioni il quale l’ha poi riaffittato per 9,2 (tutti
i servizi compresi, beninteso), al Campidoglio.
La
Roma della rendita parassitaria ha soppiantato la
Roma palazzinara. Le privatizzazioni l’hanno prosciugata dei grandi centri del
potere finanziario: Telecom, l’Ina, la Banca di Roma di Cesare Geronzi... E
quello che non è riuscita a mangiarsi Milano è finito agli stranieri. Vedi Bnl.
Una desertificazione che non ha impedito, e forse ha perfino favorito,
l’avanzata dei capitali mafiosi. Fa venire i brividi adesso sapere che decine di ristoranti nel centro
della città, da Pizza Ciro a Jamm ja, sono controllati dalla camorra.
Scoperta già preceduta dai clamorosi sequestri alla ‘ndrangheta del Cafè de
Paris di via Veneto e dell’Antico Caffè Chigi, di fronte alla sede del governo,
che aprono squarci inquietanti sulla facilità di infiltrazione della
criminalità organizzata. Per troppo tempo ignorata, sottovalutata, o peggio
ancora: tollerata. All’ombra di una burocrazia sempre più pervasiva quanto
disinteressata ai destini della città.
Per lo scrittore napoletano naturalizzato romano Raffaele La Capria - autore del libro
«Roma» di prossima uscita per Mondadori - «la burocrazia è il vero potere
romano. Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna,
alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca
negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito. Si dice che tutte le
strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a
Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della
burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma
dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima
dittatura all’interno della democrazia».
Forse anche per
questo i quattrini non hanno mai smesso di girare
intorno alla cosa pubblica. Capace di tenere insieme nello stesso calderone la
politica con gli affari. Così da far dire a un profondo conoscitore di Roma
qual è l’archeologo Andrea Carandini: «Ignoro dove sia il vero centro di potere
di questa città. Forse ancora i costruttori...». L’odore delle loro tracce, in
effetti, si sente dappertutto. Anche alla Pisana, quartier generale del
consiglio regionale del Lazio, dove la commissione Ambiente, quella che ha
competenze sull’uso del suolo, era presieduta fino all’anno scorso da Roberto
Carlino, il titolare della Immobildream: quella che «non vende sogni, ma solide
realtà». Ovvero, l’agente immobiliare dei vari Caltagirone, che occupava anche
una poltrona nella commissione Urbanistica. Tiè.
E forse la poltrona da sindaco non è stata contesa a Ignazio Marino, alle ultime elezioni, da Alfio
Marchini? Per i maligni il nipote dei fratelli costruttori Alfio e Alvaro, che
per aver donato il Bottegone al Partito comunista si beccarono l’epiteto di
«calce e martello», sarebbe stato il vero candidato di Francesco Gaetano
Caltagirone. Sospetto che Marchini ha sempre sdegnosamente rigettato, senza
peraltro smentire gli ottimi rapporti con Caltagirone: dieci anni fa i due
progettarono di scalare insieme Metrovacesa, il secondo gruppo immobiliare
spagnolo.
Ma sbaglia chi oggi crede di
individuare in figure come quella del
proprietario del Messaggero l’unico nocciolo duro del potere nella città.
Sulla portata della sua influenza a proposito di certe decisioni politiche e
grandi affari che si muovono in città non ci sono dubbi. Al tempo stesso, però,
il baricentro del business di Caltagirone si sta spostando sempre di più fuori
dei confini italiani. E di sicuro non è andata in porto un’operazione, della
quale si è molto parlato, per cui poteva finire nelle mani di Caltagirone il
regno della spazzatura dell’ottantasettenne Manlio Cerroni, proprietario di un
gruppo imprenditoriale da 800 milioni l’anno che si estende dal Brasile
all’Australia, costruito partendo dalla discarica più grande d’Europa, quella
di Malagrotta. Uno degli uomini più potenti di Roma. In grado, è la tesi dei
giudici che ora l’hanno messo agli arresti, di fare il bello e il cattivo tempo
con le amministrazioni. Al punto da portarsi dietro il soprannome di «Supremo».
La capitale degli interessi. La
verità è che a condizionare la politica
romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale
europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli.
Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno
trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la
seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del
commercio ambulante in città. Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo,
controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree
turisticamente strategiche. Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi
esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze. Per non parlare
delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione
che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo.
Ricorda bene, l’ex assessore Walter
Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di
Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei
veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei
Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici.
E i negozianti. Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato
dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog.
Nel 2010 Legambiente ha calcolato il
passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un
rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel. Appena eletto,
Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex
via dell’Impero è chiusa appena a metà, e unicamente al traffico privato. In
quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu... Nell’altra è tutto
esattamente come prima. Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea
con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del
nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge
prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano
provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette
lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del
Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni
potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi
espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura
internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il
museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro
che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perché privo di
programmazione. Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale.
L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca,
punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora
pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune
sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato
dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona
di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando
generale dei carabinieri. Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha
i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche
dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante
dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia.
Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre,
mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perché lasciato da solo nel
confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare
la città con gli scioperi.
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco
mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre
membri. Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo
carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda
di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la
campagna elettorale Marino subisce la
conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo
Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore
e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone. Al loro fianco, due rappresentati
del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior,
l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola
Severino, Paolo Di Benedetto, nonché il segretario generale della dalemiana
fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120
mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino
al 2016 in
caso di licenziamento. Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento.
Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica
Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola
Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il
sindaco in realtà doveva essere lui. Poi, quando la Regione Lazio è saltata per
aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il
meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie
e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino
della capitale quasi per caso. E il Partito democratico, a Roma, non è nelle
sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle
difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie
di sindaco ombra.
Spiegano così, i soliti dietrologi del Palazzo, le affettuosità che gli dedica ripetutamente il
Messaggero di Caltagirone, cui risponde a colpi di querele. Il grande
elettore di Marino, quel Goffredo Bettini per anni direttore d’orchestra del Pd
romano, non nasconde il proprio pentimento. Rimprovera al sindaco la gestione
della cultura e il disinteresse verso il Festival del cinema, che considera una
propria creatura. Giudizi forse ingenerosi, almeno quanto la battuta maligna
che circola negli ambienti democratici più critici verso Marino, equiparato al
personaggio interpretato da Peter Sellers nel film «Oltre il giardino»: Chance
il giardiniere. È il masochismo della sinistra, specializzata nel fuoco amico.
Tanto più perché il sindaco sta
pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche
disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità
materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di
respiro, sempre che ce ne siano. A questo si aggiunga la valanga dei circa 4
mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla
precedente gestione.
Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte. Per la prima volta quest’anno è saltata
la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri
comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta,
come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato
consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è
stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo
genovese con una lunga esperienza americana. Anche se chi ha voluto la
bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto.
Le dimensioni, innanzitutto.
Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un
groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei
problemi. Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi
della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si
presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e
l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti
degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler. L’Atac ne ha 12.276, il
servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli
ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue
controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di
cristallina efficienza, verissimo. Ma l’igiene urbana è quella che è e i
cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che
hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società
letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565
persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un
nome rigorosamente inglese: «Roma city investment». A che cosa serve? A
«promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e
l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di
rigenerazione urbana».
In attesa che l’Urbe venga
rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da
smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno
dei capitoli più bui nella storia della città, su cui sarebbe doveroso fare
luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi
che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata
presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di
costruire. Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere
i termini di prescrizione del giudizio penale. Con il risultato che nessuno dei
responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.
(L’INCHIESTA/ Viaggio nella metropoli 2 - fine)
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(L’INCHIESTA/ Viaggio nella metropoli 2 - fine)
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