Dai giardini vengo da voi, figlie delle montagne,
dai giardini, dove la natura vive paziente, casalinga
curata e curatrice assieme a uomini premurosi.
Ma voi, gloriose, vi stagliate come un popolo di titani
nel mondo addomesticato e appartenete solo a voi e al cielo
che vi ha nutrito e allevato e alla terra che vi ha generato.
Nessuna di voi è andata alla scuola degli uomini
e vi librate in alto l’una accanto all’altra, libere,
gioiose per afferrare lo spazio con braccia possenti,
verso le nubi, come l’aquila con la sua preda
e il sole vi incorona, grandi e chiare.
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Un mondo è ciascuna di voi, come le stelle del cielo
vivete, come un dio, assieme per un libero patto.
Se pure sopportassi la schiavitù mai invidierei
questo bosco per inchinarmi a questa vita condivisa.
Non fosse il mio cuore avvinto a condividere con altri la mia vita
perché non può fare a meno dell’amore, a vivere verrei
solo tra di voi.
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Friedrich Hölderlin, Gedichte, 1847
È il momento del selvatico. Del selvatico, precisamente, non certo del selvaggio. “Selvaggio” è una parola aggressiva, indica qualcosa che si vuole svalutare. I popoli che oggi chiamiamo indigeni o autoctoni un tempo erano i selvaggi. Gli animali non addomesticati, quelli che fanno paura, li chiamiamo ancora selvaggi. Se diciamo di qualcuno che è un selvaggio stiamo dicendo non solo che è ineducato, ma che fa cose che non ci piacciono. Col selvatico, è tutta un’altra storia.